All’inizio furono JFK, Chruščëv, Castro, il Che, il presidente Mao. Furono Martin Luther King, Malcolm X, Bobby Kennedy, Marilyn. Ci furono la Beatlemania, la Swinging London, Carnaby Street e la Mini Minor. Quindi la Op Art, la Pop Art, la Beat Generation, il Free Cinema. Ci furono i Figli dei Fiori, il Maggio, Woodstock, lo Sputnik e Apollo 11. Poi il Muro, Praga. Il Vietnam.
Anni ’60. L’intera società postbellica, lasciate alle spalle le ristrettezze economiche e alle prese con un crescente benessere, si trovò ad affrontare un cambiamento radicale che l’avrebbe trasformata. Un’intera generazione si mise in marcia e cominciò a far sentire la propria voce, contestando il mondo costruito dai padri, smuovendo le coscienze. E dietro gli slogan c’erano gli ideali – prima ancora che l’ideologia. Erano talvolta utopie, aspirazioni velleitarie fin che si vuole, tuttavia piene di autentica speranza in un mondo migliore che, allora, pareva davvero realizzabile.
Castro era rimasto uno degli ultimi protagonisti di quell’età irripetibile (e controversa) ancora in vita. Era sopravvissuto all’evoluzione della società moderna senza più riuscire a incidervi le proprie iniziali. La piccola Cuba aveva smesso nel frattempo di essere un modello socioeconomico per diventare, più prosaicamente, meta turistica di richiamo. Apprendendo la notizia della sua morte, ho pensato che la fine delle ideologie (a cominciare da quella castrista, con le sue luci e le ombre) non ha reso il mondo migliore: al contrario ha reso il panorama sempre più incerto, difficilmente interpretabile, forse ingestibile.
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