Spazzacamino, spazzacamino
ho freddo, ho fame, son poverino.
In riva al lago, ove son nato,
la mamma mia ho abbandonato.
Come l’augello che lascia il nido,
per guadagnarmi qualche quattrin.
E tutto il giorno vo’ attorno, e grido:
Spazzacamino, spazzacamin...
Me la cantava mamma quand’ero piccolo: di un patetismo talmente straziante da indurmi precoci e tormentosi sensi di colpa. Come se ne potessi qualcosa di quel disgraziato che – continuano le strofe che vi risparmio – è brutto da far spavento, cammina con le scarpe rotte nella neve e, il giorno in cui tornerà a casa, i suoi genitori saranno probabilmente già al cimitero.
Ecco, ora io dico: mamma, va bene quel tuo gusto per i romanzi dickensiani pieni di orfani e collegi, va bene che mi facevi leggere De Amicis con la sua sfilza di mutilatini, ma pure lo spazzacamino intirizzito e denutrito dovevi appiopparmi?