Sono le sette di mattina. Ad ogni movimento le lenzuola frusciano lisce come seta. La tua voce accarezza morbida la mia immaginazione. Da quanto siamo qui a parlare? Chissà, per quel che ne so potrebbero anche essere secoli. Un tempo ti consideravo la mia seducente Sheherazade. Poi ho riflettuto sul fatto che lei racconta le sue storie per mille e una notte allo scopo di irretire la mente del sultano e salvarsi la pelle. Mi piace allora di più identificarti con Peter Pan, perché dispieghi la fantasia per condurmi a Neverland. E questa stanza è Neverland, questo spazio di universo racchiuso nel tuo ventre, questa scansione di tempo disposta tra il tuo arrivo e la mia partenza.
Il traffico di O’Connell Street giunge attenuato alle orecchie, come da una dimensione parallela ed estranea. Dalla finestra si scorge il Liffey, che scorre via silenzioso tra spiragli di foschia mattutina. Dublino è una città modesta, ma la sua semplicità rassicura, conforta e dissolve con bonaria familiarità le finzioni della vigilia di natale.
Resto a guardarti mentre ti rivesti. Osservo ogni gesto con attenzione, perché ogni gesto mi spiega come sei. Con la luce del giorno sembri vagamente turbata e inquieta. Appena poche ore fa mi cavalcavi focosa, il viso e il seno vermigli di passione. Ora cerchi quasi di sfuggire al mio sguardo che ti esplora palmo a palmo. Ti osservavo mentre dormivi stanotte. Supina, le braccia distese lungo i fianchi, il petto che ondeggiava al ritmo del respiro. Facevi tenerezza. Giacevi abbandonata sul bordo di qualche sogno come una bambina. E sorridevi.
Mi riscuoto. Devo mettermi in viaggio, prendere l’aereo per il continente. Se penso a quante volte ti ho vista che te ne andavi con il passo veloce, tutta scompigliata, la t-shirt fuori dei jeans. Quante volte mi sono stampato nella memoria il tuo braccio sollevato che salutava con la carta d’imbarco in mano. Ricordo Schiphol, quando ci siamo addormentati sulle comode poltrone dei voli intercontinentali. O Barajas, quando sei partita con i sandali a tracolla mentre ridevi e mi baciavi. A Lisbona non trovavi più i biglietti, ma forse era solo una scusa per non lasciarmi. Alla Malpensa facesti una scenataccia di gelosia e mi piantasti lì da solo con il bagaglio in mano. Ma a Las Palmas, ricordi, abbracciai forte il tuo dolore, e avevamo gli occhi che quasi si toccavano.
La nostra è una storia passata a rincorrerci per l’Europa. Una storia di coincidenze, aerei persi, voli cancellati, bagagli smarriti. Di fusi orari, città sconosciute, taxi nella notte, stanze di hôtel tre stelle. Una storia fatta di distanze da colmare, di assenze inaspettate, di silenzi improvvisi, e poi di parole a precipizio senza prendere fiato. Troppo, oppure troppo poco, senza limite né misura. Sì: tante volte mi sono detto che non si poteva andare avanti così. Soprattutto in quei giorni nei quali non ti sentivo, non sapevo che stavi facendo, se mi eri vicina oppure no. In cui capivo che mi sfuggivi e non riuscivo a spiegare le ragioni, non mi davo pace. E allora i dubbi facevano il sangue più vischioso, le inquietudini affioravano alla superficie della coscienza come mine vaganti. Meglio lasciar perdere tutto che continuare a viaggiare su un filo troppo teso e sottile, mi convincevo. Poi ricomparivi, un’e-mail, un sms, e io felice e immemore a spalancare il mio cuore per accoglierti nuovamente. Comprendevo allora che c’erano picchi di sentimento a compensare qualsiasi separazione. Tu eri una parte di me che un giorno ti avevo prestato, ma che mai mi sarei sognato di chiederti indietro.
Ora sono io a dover partire. Ripongo con calma le mie cose nella valigia mentre mi fissi assorta e silenziosa. Intuisco ciò che vorresti dirmi. E mi stupisco che tu non lo faccia. Rimango pensoso con una camicia in mano. E se rimanessi. Dublino è una città troppo malinconica per lasciare da sola una donna solare come te. Stasera potremmo tornare in quel pub di Temple Bar, l’Abbey Tavern. Davanti a una Guinness, amara come la vita, potrei decidermi a raccontarti tutte quelle cose che non mi chiedi. E cercherei insieme a te quelle risposte che mi rendo conto di non aver mai perduto. Il tempo per amarci è poco, sarebbe un peccato sottrarcelo così.
Ma adesso, all’improvviso, mi guardi seria, come se avessi letto i miei propositi. E mi stai dicendo di no. È vero, hai ragione, dopo farebbe troppo male. Non so se più a te o a me, ma farebbe male. Chiudo la valigia con un pugno di tristezza nel cuore. Avrei desiderato prolungare ancora di un giorno – e di una notte – questo nostro incontro irlandese. Capisco che, in qualche modo, mi stai mandando via. Però non è per cattiveria. È che ogni volta il distacco si fa più difficile, e sai che bisogna resistere alla seduzione di strappare al tempo ancora istanti supplementari di felicità. Perché poi subentrerebbe la tentazione di non lasciarci più. E così certo sarebbe. Come sei più istintiva di me, così sai essere più razionale. Dici di essere fragile, ma conservi una lucidità interiore che ti fa agire nella maniera più saggia. No, non sarò mai come te nonostante gli anni in più che ho. Sorrido a questo pensiero, e adesso sorridi di nuovo anche tu. Forse perché non è esattamente ciò che pensi, ma preferisci farmelo credere. E io fingo di crederci, lasciandotelo credere.
In cambio, ti chiedo solamente un favore. Questa volta non accompagnarmi all’aeroporto. Chiuderemo insieme la porta della stanza, scenderemo le scale con le nostre valigie in mano e consegneremo la chiave alla reception. Tu ti avvierai alla fermata del 41 che ti porterà verso il Trinity, io attraverserò la strada e prenderò il mio bus nella direzione opposta. Oggi non resisterei a trattenere le lacrime. E sai bene quanto mi vergognerei. Preferisco invece restare un po’ per conto mio, come di solito faccio quando ho una sbornia di pensieri da smaltire. Farò il check-in, mi recherò al gate e lì resterò nell’attesa del decollo seguendo la scia fosforescente del tuo ricordo. Spesso mi scopro a presagire la sensazione di vuoto d’aria che proverei il giorno che non ti vedessi più agli arrivi, che mi attendi sorridente e arruffata, con la gonna alle caviglie e la maglietta troppo corta. Questo presentimento provoca un dolore sordo a qualunque speranza, perché serbo la triste consapevolezza che presto finirai per percorrere rotte molto lontane dalle mie.
Oggi però ho voglia soltanto di immaginarmi altri incontri e nuove felicità, momenti smemorati di confusa euforia e di irresponsabili tenerezze. Di un amore dipinto sulle nuvole da toccare con un dito, che sia una bellissima prova che, nonostante tutto, tu ed io siamo ancora vivi.
(Pubblicato su Blu Agorà Caffè il 23 dicembre 2004)
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