Non ho mai voluto essere come mio padre. Questa convinzione è maturata gradualmente in me sin da bambino come una disposizione istintiva, non come frutto di una scelta razionale. Avvertivo nei suoi confronti una sensazione di non appartenenza - di più: di estraneità respingente, a volte sgradevole, persino irritante. Si accompagnava ad essa un oscuro senso di colpa, come se il responsabile di questa lontananza emotiva fossi io, portatore inconsapevole di un peccato originale, di una mancanza primigenia. La verità era un’altra, risiedeva nella sua incapacità di provare e produrre affetto, ma io non potevo comprenderla. Avevo appena quattro o cinque anni e stavo ricevendo un’educazione ispirata ai tradizionali principi cattolici dell’obbedienza. Se papà mi ordinava di fare qualcosa era per il mio bene: anche se le sue pretese mi parevano eccessive, pretestuose, insensate (e francamente lo erano), avevo il dovere di obbedire come insegna il quarto comandamento.
Cercavo allora di rimediare alle mie piccole malefatte infantili dimostrandogli, con un comportamento sufficientemente disciplinato, il mio essere in qualche modo parte - se non degno - di lui.
Inutilmente. La mia natura aliena emergeva sempre.
Al suo autoritarismo sregolato, alle sfuriate irragionevoli, alle punizioni spesso immotivate, opponevo per lo più una resistenza passiva, ostinata, irremovibile: stringevo i pugni e serravo le labbra. Intuivo che il mio mutismo oppositivo disarmava la sua aggressività disordinata rendendola infine poca cosa. Mi sembrava di diventare una montagna di ghiaccio, fredda, immobile, insensibile alle intemperie, che percepivo peraltro effimere. Sapevo che di lì a poco sarei tornato il bambino che ero, il bambino di sempre, sorridente e fantasioso. Sapevo di non essere lui, che non sarei mai stato come lui. E ne ero segretamente felice.
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