Non è una bella città, Frosinone, adesso posso finalmente dirlo. Il centro storico, arroccato su un colle, è di qualche interesse, mentre la parte bassa appare come un modesto ammasso senza stile che scende disordinato lungo la pianura. Emma abitava in un palazzo signorile ricostruito dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, posto a ridosso del campanile della cattedrale. Paragonavo quell'edificio fatto di corridoi e stanze barocche a un immenso utero nel quale era possibile regredire verso un'età senza tempo. Il mondo di fuori poteva anche smettere di esistere e la vita lì dentro avrebbe continuato a fluire, sospesa, silenziosa, senza memoria né desiderio. I Monti Lepini, visti dal terrazzo che si apriva sul salone, assumevano al crepuscolo una sfumatura azzurrognola irreale che pareva un piccolo anticipo di eternità.
Emma aveva promesso di accompagnarmi fino a Castro dei Volsci e poi a Fontana Liri, il paese natale di Marcello - Marcello Mastroianni. Non lo fece mai. Non perché non lo volesse, ma si sa come vanno a finire certe storie che capitano tra un uomo e una donna, in qualunque modo vogliamo chiamarle. Vanno a finire, come tutte le cose della vita. E più il legame è stato forte, più il distacco avviene in maniera cruciale, persino violenta, uno strappo senza possibili ripensamenti. Solo così si può pensare di conservare la propria integrità fisica e mentale.
Quella parte montuosa di Ciociaria mi incuriosiva: Ferentino, Alatri, Arpino, Ceprano, Priverno, Ceccano, Roccasecca. La Ciociaria popolaresca e pastorale appresa dal cinema neorealista, la Ciociaria rustica delle selve incolte, dei briganti di strada. Ma anche quella Terra del Lavoro bonificata dal pantano malarico dell'Agro Pontino - Sermoneta, Sezze, Cisterna - con i suoi latifondi fascisti. Adoravo la parlata ciociara, pigramente indecisa tra romano e napoletano, con quelle morbide sonorizzazioni, le metafonie. Emma proveniva da una famiglia aristocratica in cui si usava un italiano eccezionalmente forbito, ma ogni tanto le sfuggiva un accento, un'inflessione. E io sorridevo. Per un motivo o per un altro sorridevo sempre con lei, sebbene i turbamenti mi cogliessero spesso di sorpresa.
Un giorno Emma mi mise tra le mani le chiavi della sua auto. Lo considerai un gesto simbolico, sapevo quanto fosse gelosa delle proprie cose. Tenendo lo sguardo rivolto altrove mi fece superare il centro abitato di Veroli, dove abitava il suo ex fidanzato che l'aveva lasciata all'improvviso per sposare un'altra donna. Arrivammo all'abbazia cistercense di Casamari, un piccolo gioiello d'arte gotica che visitammo in un'aria umida di pioggia. Lei era tesa, stava preparando un concorso, dormiva poco, piangeva spesso. La sera stessa ci recammo ad Anagni, ai piedi della dimora di Bonifacio VIII si svolgeva uno spettacolo teatrale con Alessio Boni. Non trovammo da sederci e, poco dopo l'inizio, sussurrò che si sentiva stanca e mi chiese di ritornare a casa. Guidai nel buio pesto della Casilina senza che mi rivolgesse una sola parola. La sua personalità era composta di molti strati non ben definibili. Si portava dentro un disagio esistenziale che la rendeva complicata e vulnerabile, sensibile e misteriosa. Adesso che ci penso: chissà come si chiamava quel ristorante di Patrica dove quella volta mi invitò a cena. Nelle sue intenzioni doveva esserci un significato benaugurante, poi gli avvenimenti presero un corso differente. In tutta sincerità, fu meglio così.
Una mattina che andavamo verso il mare, facemmo una piccola deviazione per l'abbazia di Fossanova. Mentre passeggiavamo nel chiostro tenendoci per mano, Emma disse che mi avrebbe confidato un segreto appartenente al suo passato. Aveva a che fare con la morte, precisò guardandomi brevemente negli occhi come per cogliere una reazione, ma senza l'intenzione di aggiungere altro. Probabilmente ci ripensò e non capitò più l'occasione che sentiva propizia. Gliene resto intimamente grato: sono certo che non avrei saputo sostenerne il peso e lei non sarebbe stata più la candida Emma che mi rappresentavo così bene.
La sera ci attardammo a gustare un'eccellente pizza nel locale di Terracina dove era solita recarsi con il fidanzato. Temeva di essere avvicinata da qualcuno che conosceva, però la stagione volgeva al termine e il locale era semivuoto. A mezzanotte passata acquistammo in un chioschetto due bomboloni alla crema e ci sedemmo su una panchina del lungomare a guardare le stelle. Sembrava che un bambino le avesse appese al cielo con lo spago.
Il promontorio del Circeo sporgeva nel Tirreno come il profilo di una balena verde. Emma mi condusse a San Felice raccontandomi delle sue estati di adolescente, con il motorino e i ragazzi che le facevano il filo. Da lì ci dirigemmo verso Sabaudia, con la sua laguna, i cespugli, le dune mosse. Seduta compostamente sulla sabbia, sembrava una diva degli anni '50 - occhialoni scuri, labbra truccate, pelle bianchissima, persino il vento non osava spettinarle i lunghi capelli biondi. Io somigliavo più a Marcello, scarmigliato, con un ciuffo d'erba in bocca e l'aria di chi si chiede se sia tutto vero o sta sognando ma che, in fondo, non si preoccupa della risposta.
Ci spingemmo poi verso sud, fino alla bianca Sperlonga, su e giù per gli scalini tra i vicoli e i gatti randagi che entravano e uscivano dalle botteghe. Ci prendemmo tutti gli ozi e i vizi di Capua, la tiella e un gelato alla crema in attesa del traghetto per Ventotene. Ma quella di Ventotene è un'altra storia ancora...
Lo so che siete curiosi, che vorreste saperne di più. E invece no. Perché noi siamo soprattutto le storie che non raccontiamo e la nostra la sappiamo soltanto Emma ed io - in arte Pim.
Ultimi commenti