Non sapendo cos'è successo quella notte, continui a parlare di me usando toni commossi e fantasiosi, come si ritrae un fantasma o una figura epica. Se non mi avessi voltato le spalle mi avresti invece trovato in fondo a una scala, con il fiato spezzato, i passi incerti e una valigia ingombrante da trascinare lungo il corridoio. Mi avresti visto giungere sfinito al bancone, dire qualcosa, forse che non stavo bene, estrarre la tessera sanitaria dal portafoglio per ritrovarmi poi tremante su un lettino. Pulsazioni irregolari mi squassavano il petto, non capivo se fosse il cuore, lo stomaco, semplicemente l’ansia. Il mio corpo si esprimeva in un linguaggio semplice ma oscuro, indecifrabile. Mi rendevo solamente conto di avere accumulato troppa tensione, trascorso troppo tempo a sfidare i mulini a vento: ero arrivato al punto limite, la corda a questo punto poteva spezzarsi ed era questo, credo, il motivo dell’agitazione che si era impadronita di me. Mi trovavo inviluppato dentro un vortice, un circolo vizioso, in un loop testa all’ingiù: mi schiantavo o riprendevo il volo, se non il volo almeno si trattava di atterrare in sicurezza. Il primo soccorso mi diede il conforto di non essere solo, in totale balìa di me stesso e delle incontenibili paure che frammentavano la mia coscienza. Qualcuno si stava prendendo cura del mio stato, qualcuno che adesso mi auscultava, mi palpava e porgeva domande cui mi sforzavo di rispondere in maniera precisa (questa è la mia formazione e poi dovevo in qualche modo tranquillizzarmi). So che succederà, mi ripetevo, che ci sarà un’ultima volta, ma non qui, in questo anonimo ricovero di fortuna: non può finire così senza almeno un preavviso, senza alcuna preparazione, ho ancora molte cose da fare e le voglio fare tutte. Cercai di respirare profondamente contraendo e rilassando il diaframma, provando a recuperare il controllo dell’attimo presente. Mi sentivo confuso, avevo la testa piena o forse vuota di pensieri però, poco a poco, arrivai ad accettare la mia condizione di naufrago scaraventato dalla tempesta sugli scogli. Senza neppure capacitarmene, mi convinsi che sarei riuscito a riallacciare i fili della mia identità corporea, sgrovigliandoli uno ad uno dalle cattive sensazioni e ritrovare l’integrità smarrita. Furono altri esami strumentali, una cannula piantata nell’avambraccio, la cartella sotto le gambe, poi qualcuno mi annunciò: ti dimetteremo presto. Davanti a me si stendeva ora una lunga attesa da affrontare con gli occhi chiusi, da colmare con un minimo di riposo per quanto inframmezzato da voci di infermieri, cigolio di barelle, lamenti, porte che si chiudevano a sbuffo, neon che trapassavano le palpebre abbassate. In fondo all’astanteria una donna si stava intanto avvicinando, con lei la mia valigia. Sia pure a fatica potevo rialzarmi, riprendere il bastone da viandante e uscire all’aria aperta, toccare il mondo che mi si offriva nuovamente, scoprirmi stupito del colore del giorno che era sorto a mia insaputa.
(30 luglio 2018)
Ultimi commenti