Per un torinese è semplice: basta alzare lo sguardo, non dico salire ai Cappuccini o fino a Superga. Le Alpi sono là, Cozie, Graie, Pennine, le vedi ovunque, disposte a semicerchio in quest'angolo di nordovest. Verso sud degradano bruscamente nel mar Ligure, a Nord si corrugano nei rilievi valdostani. Torino è una città di montagna, o meglio di montagne.
Te ne rendi consapevole solo intorno all'adolescenza, quando la curiosità per il mondo comincia a destarsi e la fantasia si fa vivace. Ad un certo momento capisci che, dietro quella successione divenuta familiare di picchi e sbalzi, in fondo al corridoio che si apre dalla Valsusa, c'è la Francia. Che poi non è solamente la Francia, così affine per lingua e cultura: è l'Altrove che ti chiama da lontano, con una voce ignota che riecheggia suadente di promesse da cogliere prima che sfioriscano.
Per un torinese la propria terra è sempre troppo angusta, noiosa, incapace di generare sorprese e di mantenerle. O guardi giù in basso verso le acque mediterranee, oppure ti rivolgi dove il sole va a tramontare spandendo certi strani bagliori bluastri. Oltrepassato l’arco alpino immagini una distesa di pianure e morbide colline, di strade che si dipanano veloci, binari e fiumi dal corso placido in cui perdere il respiro. Risuona nelle orecchie una parlata gentile che ascolti senza il bisogno di tradurre, ti figuri cibi e vini il cui sapore hai da sempre impresso nel palato. Improvvisamente percepisci profumi nuovi che però ti ricordano qualcosa che avevi perduto in un tempo lontano, forse prenatale.
È qui, è qui, ti dice quella voce, da qui tu vieni e hai finito per ritornare quasi senza accorgertene.
(Novembre 2015, corrispondenza personale)