Non mi sono mai seduto così vicino al mare in tempesta, trattenendo l’impulso di correre verso le onde come un bambino sfuggito al controllo dei genitori. Ho preso posto al tavolo, ho dato un giro di sciarpa intorno al collo e sono rimasto a guardare, a lungo, ipnotizzato dalla violenza dell’acqua che si spacca sugli scogli in un turbine di schiuma.
A volte la testa mi diventa un bottiglia di plastica accartocciata, un acquario tropicale allestito nel salotto, uno scrigno d’oro e velluto che racchiude trame complicate di pensieri. Così è il mio autunno al mare – così il mio mare è in autunno –: un’attitudine, un’inclinazione malinconica di tardo romanticismo che mi porta a rileggere il libro degli incantesimi che più non mi appartengono.
Una focaccia, una birra con i piedi quasi a mollo e i gabbiani che, sfidando il maestrale impazzito, si posano a pochi metri dal tavolo in cerca di cibo. Sembrano quasi umani nelle loro movenze terrestri, bipedi, sbilenche. Mi invento che a novembre si tengano lezioni di volo: i gabbiani si offrono di guidarti per qualche gioco in aria per poi pilotarti in picchiata nelle grandi acque del Mediterraneo ad afferrare tra gli spruzzi qualche incauto pesciolino.
L’ho già detto altre volte, lo so, ma in fondo ad ogni storia c’è sempre il mare. Il mare che aspetta anche quando non te lo aspetti. Ma oggi gli chiedo, tra il vento feroce e le lacrime: ti prego, non aspettare, non aspettare più.
(Alassio, novembre 2018, photo by Pim)