La Grande Guerra intacca e scalfisce il mito patrio del 4 novembre 1918. La realtà è che si trattò una vittoria relativa dal punto di vista politico, ottenuta al costo di una perdita spaventosa di vite umane (650.000). Il guerrone (ancora oggi i vecchi lo chiamano così) fu combattuto in trincea, tra assalti sanguinosi alla baionetta, reticolati infiniti di filo spinato su cui i soldati finivano infilzati. Un massacro oggi inimmaginabile, condotto praticamente senza regole, in cui si veniva mandati al macello per conquistare pochi metri di terra. Il disinteresse per la vita umana era assoluto, si sparava addosso pure alla Croce Rossa (e non è un modo di dire).
Il film è mirabile perché costituisce un’equilibrata contaminazione tra la commedia all’italiana e la tragedia storica, secondo un modello di racconto che appartiene alla tradizione alta, ma anche tra cinema di cassetta e d’impegno. L’approccio antieroico, che ha come lontano antesignano Charlot soldato, prima pellicola antimilitarista della storia, sarà caratteristico di molti altri film (anche americani) del decennio successivo. Monicelli riproduce con sensibilità un’atmosfera drammaticamente dimessa che sfugge al facile bozzettismo. Sordi e Gassman trasmettono accurata dignità a due soldati che sapranno sacrificare convenienza e spirito opportunista per conquistarsi una solida coscienza morale.
La grande guerra di Mario Monicelli con Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Silvana Mangano (Italia-Francia, 1959, 140’) Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia