Quand'ero bambino fantasticavo di intraprendere una fuga verso luoghi lontani, alla scoperta del mondo. Progettavo di preparare i bagagli nottetempo e poi, alle prime luci del giorno, me la sarei svignata da casa dandomi alla macchia, rendendomi introvabile a tutto e a tutti. Sognavo di rifarmi l’esistenza in qualche angolo sperduto, facendomi amici e complici disposti a spartire pericoli, donne e tesori. Poi, dopo un paio di decenni, ecco ricomparire l'avventuriero sotto mentite spoglie, il viso segnato dal tempo, ricco come si conviene e spietato come si deve. Nell'animo un bruciante proposito: consumare l’agognata vendetta nei confronti degli acerrimi nemici le cui colpe erano rimaste ingiustamente impunite.
Poco importa se l'idea che un bambino debba ricostruirsi un'esistenza sembri buffa e che non considerassi come acerrimo nemico nessun compagno di scuola. È possibile che questa fantasia nascesse dal desiderio di allontanarmi da certi disagi infantili che ero incapace di esplorare; oppure che esprimesse il desiderio di mettermi alla prova e imparare a vivere. Ad ogni modo, la storia del ritorno-con-rivalsa, come quella che avevo letto nel Conte di Montecristo, mi intrigava sino a diventare una piccola ossessione.
Oggi mi appare invece più affascinante la prospettiva di una fuga definitiva, di un viaggio solo andata senza rentrée prevista. Agli occhi di chi ha percorso un bel pezzo di vita, la ragione è di una semplicità cristallina: se trovi il Paradiso, che torni a fare all'Inferno?