Lo studio era avvolto nella penombra. La lampada da tavolo mandava una luce giallognola piuttosto fioca rivolta verso il divanetto. Dietro le tendine abbassate delle finestre giungeva attenuato il rumore del traffico in Boulevard du Montparnasse. Il professor Shekiptzki, lo psicoanalista più caro e alla moda di Parigi, sedeva appollaiato alle mie spalle, in assoluto silenzio.
Mi starà facendo le boccacce? Avrà indossato un naso da clown?, pensai.
Il naso da clown, disse lui.
Telepatico, pensai di nuovo.
Devo pure giustificare in qualche modo il costo delle sedute, rispose Shekiptzki.
Sospirai. Non mi restava che cominciare.
Perché Pim? Semplice, è un acronimo: P corrisponde all'iniziale del nome, I del cognome, M del secondo nome. Ad esempio, se mi chiamassi Orso Maria Guerrini (lei non sa chi è, non importa) sarei Ogm. Una vera schifezza. Meglio Pim, allora. E non Pmi o Ipm: Pmi sembra uno starnuto soffocato e Ipm il marchio di una benzina. Pim suona bene, tipo “mi chiamo Arthur Gordon Pym”. Il nickname ha compiuto da poco diciassette anni. Lo usai per la prima volta in un forum di cinema e lo conservai per il blog. Non ho mai avuto altri nick al di fuori di Pim, non potrei mai nominarmi altrimenti e invano. Lo uso sia per imbrattare i muri virtuali del web sia quando devo siglare un documento ufficiale. Io sono Pim. Punto. Su di me si sono posati molti sguardi, li ho sempre ricambiati con interesse e partecipazione. Alcuni sono volati via in fretta, altri si sono soffermati più a lungo: in ogni caso sono loro grato per l’attenzione che mi hanno rivolto, anche per un solo istante. In qualche circostanza, quegli sguardi si sono trasformati in occhi, sorrisi, abbracci reali...
A queste parole il professor Shekiptzki ebbe un sussulto. O forse fui io a proiettare il mio stato d’animo sul suo corpaccione immobile.
Secondo lei?, disse emergendo dal silenzio.
Lo stato d’animo, risposi a mezza voce.
Deglutii.
Va bene, lo ammetto, ho fatto qualche pasticcetto, forse ho confuso il mondo reale con quello virtuale. Ma c’è differenza? Vabbè, il punto non è questo… Il punto è che Pim, all’inizio, era solo una sigla, un modo per celare le mie generalità – salvo rivelarle a chi si metteva in contatto privatamente. Ne ho conosciuti molti che facevano come me: Kissoff, Erikaluna, Verdoux, Emma, Loulou... Nei primi tempi provavo una sensazione di straniamento nel rileggere i post che scrivevo indossando la maschera di Pim. Anzi: ogni tanto fingevo di essere un navigatore qualsiasi per capire che effetto facessero le mie parole. Sono proprio io?, mi domandavo. Era una presa di coscienza graduale, progressiva: Pim era un bambino che imparava a comunicare, i pensieri faticavano a prendere la forma voluta e questo tipo di esercizio richiedeva tempo. Non si trattava solo di acquisire uno stile. Certo, scrivere nel web è diverso che scrivere su carta, il linguaggio è differente, occorre imparare la sintesi e soprattutto ad essere chiari. Non era solo questo, però. Pim doveva definire anzitutto la propria identità. Esistono infiniti modi di porsi e, istintivamente, decise di non essere il mio clone ma di rimanere sé stesso. Ovvero me stesso. Io sono una persona fondamentalmente educata, cortese, evito i toni aspri, sfuggo ai conflitti, sdrammatizzo le situazioni, tendo all’ironia. Pim contribuì a definire meglio anche la mia identità: attraverso lui sperimentai tratti della personalità che fino a quel momento della vita non avevo mai sondato. Imparai a percepire chi si nascondeva dietro gli altri pseudonimi, a distinguere gli affidabili dai cazzari, stringendo legami più profondi con le persone che, come me, erano propense a mettersi in gioco con una certa sincerità. Persone nelle quali finivo per ritrovare – con sorpresa – gusti, sentimenti, desideri, una visione della vita comune insomma. Âmes soeurs… capisce ciò che voglio dire, no?
Tacqui, attendendo un segnale di considerazione che provenisse dalle mie spalle. Invece niente, non un fiato, un fruscio di matita, un cigolio della poltrona. Niente di niente.
Mi chiesi se Shekiptzki stesse dormendo.
No, non dormo, scandì lui.
Ebbi l’impressione che si fosse offeso.
No, per niente, rispose abbandonando la neutralità professionale in cui si era ritirato. Mi faccia però capire: perché proprio ora, dopo diciassette anni, mi sta raccontando queste cose?
Ridacchiai senza ragione.
Sicuro che non ci sia?
Quant’è pedante, pensai con una nota di fastidio.
È il mio mestiere, puntualizzò lui.
E va bene. Sono anni che mi domando se troverò sempre qualcosa da scrivere oppure verrà il giorno in cui mi renderò conto di non avere più niente da dire. La mia preoccupazione è che non succeda più nulla di interessante, di curioso, da meritare una noterella presa al volo su un pezzo di carta. Niente che valga la pena ricordare, nessuna emozione da provare, niente da capire… Sarebbe la fine. Invece… Invece continuo a buttar giù qualcosa, anche solo una frase, poche parole, e rimando quel momento tanto temuto al giorno successivo. Vado avanti così, con questo dubbio cronico che mi inquieta. È che voglio tenere in vita Pim, ecco tutto, senza farlo diventare troppo grande né troppo sano di mente. E se tengo in vita Pim tengo in vita la mia memoria, le mie speranze, le mie illusioni… E anche lei, professor Shekiptzki. Perché lei esiste soltanto in questo racconto e questo racconto lo sta scrivendo Pim. Oppure io, se preferisce. Non so. Me lo dica.
Udii dietro di me il tonfo pesante della poltrona che si ribaltava. L’ora non era ancora trascorsa, che stava combinando Shekiptzki? Il controtransfert gli era andato di traverso?
Con circospezione mi misi a sedere sul divanetto, mi voltai e vidi che la stanza era vuota. Non è che mi ero immaginato tutto? Mi alzai, passai intorno alla scrivania ingombra di carte e, un passo dopo l’altro, mi avviai verso l’ingresso facendo scricchiolare il pavimento di legno. Il vestibolo era deserto, la segretaria che mi aveva accolto un’ora prima facendomi compilare un modulo era scomparsa. Richiusi il portone dietro le spalle con un tonfo metallico che riecheggiò per le scale. Giunto in strada, respirando l’aria fresca della sera, mi sentii più sollevato. Anche per oggi era andata. Domani mi sarei inventato un altro pretesto, un’altra occasione, un’altra storia per continuare a vivere.
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