Niki avrebbe potuto morire quel primo agosto 1976 tra le fiamme, lungo il tortuoso tracciato del Nürburgring. Arturo Merzario lo estrasse dalla sua Ferrari numero 1 che era ridotto a un tizzone umano. Venni a conoscenza dell’evento solo il giorno successivo, mi trovavo in vacanza a Gressoney e non guardavo la televisione. Una signora amica di mia madre teneva in mano La Stampa, buttai l’occhio e scorsi il titolo: Niki Lauda in fin di vita. Sconvolto, smisi di prestarle ascolto. Seguivo la Formula 1 solo da un paio d’anni, allora ne avevo appena undici, tifavo naturalmente Ferrari e Niki era il mio idolo. Mi piaceva perché “freddo e calcolatore”, “razionale e determinato”, come recitavano i notiziari dell’epoca. Io ero un bambino quieto, riflessivo, diversamente dai coetanei più scalmanati avevo bisogno di sicurezze. Non a caso l’altro mio campione sportivo di riferimento era Ingemar Stenmark, un ragazzo svedese tanto vincente quanto introverso.
I media diedero subito Niki per spacciato: ricoverato nell’ospedale di Mannheim con gravi ustioni su tutto il corpo, gli venne somministrata l’estrema unzione. La fine sembrava imminente, i fumi tossici inalati gli stavano avvelenando polmoni e sangue, ma dopo pochi giorni Niki riuscì miracolosamente a riprendersi. E, cosa ancor più sorprendente, si parlò presto di un possibile ritorno alle corse. Non erano trascorsi che quaranta giorni dall’incidente e, sul circuito di Monza, tra lo stupore e lo scetticismo degli addetti ai lavori Niki entrava nell’abitacolo della sua Ferrari. Rivederlo mi fece impressione: il suo volto sembrava un ceppo bruciacchiato, un cappellino con la visiera gli nascondeva le estese cicatrici. Si seppe in seguito che il fuoco gli aveva procurato temporaneamente danni anche alla vista. Nonostante le precarie condizioni fisiche, Niki ottenne un quarto posto insperato alla vigilia e mantenne la leadership del Mondiale di Formula 1. Alla fine della stagione, però, fu il rivale James Hunt a vincere il titolo, per un solo, misero, punticino conseguito in Giappone sotto una pioggia torrenziale. In quell’occasione Niki si ritirò dopo appena pochi giri: per un guasto elettrico, si affrettò a comunicare l’ingegner Forghieri, ma in realtà il freddo e calcolatore Niki non se l’era sentita di mettere nuovamente a repentaglio la vita.
Si rifece comunque l’anno successivo, bissando il titolo ottenuto nel 1975, e al termine della stagione annunciò a sorpresa che avrebbe lasciato il Team. Al suo posto Enzo Ferrari fece debuttare un giovane pilota canadese di motoslitte del tutto sconosciuto al pubblico della Formula 1: si chiamava Gilles Villeneuve. La sorte, che con la Rossa di Maranello aveva evidentemente un conto aperto, si accanì anche contro di lui ma Gilles fu più sfortunato.
Niki continuò a correre ancora un paio d’anni senza più conseguire risultati degni di nota, poi si ritirò e fondò una compagnia aerea. Ritornò altrettanto improvvisamente nel 1981 e nel 1984 vinse su Mc Laren il terzo titolo mondiale, per mezzo punto sul compagno Alain Prost. Si vede che il destino doveva finire di regolare i conti anche con lui. Niki decise allora di appendere definitivamente il casco al chiodo, pur rimanendo nell’ambiente delle corse: collaborò con Ferrari e Jaguar, successivamente venne nominato presidente onorario della Mercedes.
Le conseguenze del Nürburgring non smisero tuttavia di tormentarlo. Tra il 1997 e il 2005 subì due trapianti renali, grazie alle donazioni del fratello e della moglie. Lo scorso anno era andato incontro a un ulteriore trapianto di polmone, per sostituire quello irrimediabilmente danneggiato dai fumi tossici sprigionatisi durante l’incidente del 1976. Da allora non si era più completamente ripreso, il sistema immunitario non appariva più in grado di difendere il suo corpo martoriato.
Niki è morto ieri, dopo aver vissuto settant’anni densi di eventi che Rush, il film di Ron Howard sulla rivalità con Hunt, è riuscito a riportare solo parzialmente sullo schermo. Una sceneggiatura per quanto romanzata non avrebbe potuto riportarne il percorso sportivo e umano irripetibile. Con lui se ne va anche un pezzo della mia infanzia di bambino quieto e riflessivo, che cercava conferme e rassicurazioni negli eroi sportivi nei quali più si riconosceva e si identificava.