Una delle immagini cinematografiche più intense che custodisco nella memoria è il volto di Massimo Troisi in Il Postino. Un volto incavato dalla sofferenza, asciugato dalla malattia, le guance che parevano essersi seccate, gli occhi più grandi e malinconici. Un volto che si era fatto improvvisamente pasoliniano. Il corpo l’aveva tradito e lo stava abbandonando: ogni movimento gli costava fatica, ogni battuta uno sforzo. E allora recitava con lo sguardo, accennando i pensieri con delicati mutamenti d’espressione.
Massimo ci ha lasciato il 4 giugno di venticinque anni fa. Ci ha lasciato nel sonno, senza chiedere commiato, aggiungere spiegazioni. Proprio lui, che comunicava attraverso un sovrapporsi equilibrato di parole, gesti e smorfie, se n'è andato con discrezione. Se n'è andato estendendo all’infinito una delle sue solite frasi smozzicate, creando un vuoto interminabile tra l’ultima parola e quella successiva – che non sarebbe giunta più, che mai più conosceremo. Massimo è diventato il poeta del silenzio.