Il dialogo si fece via via più serrato in prossimità della banchina. Lei si teneva stretta al mio braccio, tra una frase e l’altra sembrava non prendesse fiato. Giunti alla carrozza numero sette mi aiutò a issare la valigia nel vestibolo, prolungando per un istante il contatto con le mie mani.
Dal finestrino agitai la mano sorridendole con tenerezza, certo del mio ritorno imminente.
Il distacco si rendeva necessario, dovevamo riprendere il corso normale delle nostre esistenze lasciandoci alle spalle la gioia frenetica dell’incontro, storditi dalla bellezza dei luoghi e dalla spasmodica dedizione reciproca. Era necessario ricucire il filo calmo della quotidianità, in attesa di dargli un nuovo, vigoroso, salvifico strappo. Non mi pesava cucire una trama di bugie intorno a questi viaggi del cuore che così intensamente desideravo. Partire non mi spaventava, anzi mi accorgevo ogni volta di più di provare un sollievo insospettato, colmo di leggerezza. Ero pronto ad accoglierla nella mia vita, con slancio istintivo. Era il tornare che gettava turbamento.
Una voce dall’altoparlante che annunciava la partenza mi distolse per un attimo dai pensieri. Volevo imprimere le linee del suo profilo morbido sulla tavoletta di cera della memoria, prima che venisse strappato via dall’inquadratura laterale compresa tra lo schienale e il tavolino.
Il movimento repentino del treno mi fece sussultare. Mi sentii progressivamente catturare dall’impeto crescente della velocità che prendeva consistenza. La carrozza non era particolarmente affollata, i passeggeri si muovevano tra i sedili e il corridoio con una certa tranquillità. Li seguivo distrattamente con gli occhi mentre, ogni tanto, cedevo alla tentazione di catturare dal fondo della retina le immagini dei giorni precedenti che avevo momentaneamente abbandonato a sé stesse.
Amo viaggiare e amo i treni comodi, ad alta velocità, gli scompartimenti semivuoti, il suono costante delle rotaie come un invito alla meditazione.
Il paesaggio mutava lentamente sembianze e colori. I palazzoni grigi e senza ordine della periferia che sfilavano come soldati malmessi avevano lasciato posto ai prati incolti con la loro tonalità muschiosa e quindi al verde leggero della campagna. D’improvviso una fila rigorosa di alberi snelli, poveri di rami sfilacciati, e poi campi di grano appena tagliato. Giusto il tempo di percepire strade di provincia e autocarri in corsa e subentrava una luce bruna, sfumata, i contorni di altre case e paesi che scappavano via di lato.
Levai lo sguardo. Possibile che nessuno si sentisse turbato? Si erano forse tutti assuefatti alla severa orchestrazione che ci impone la realtà? Erano tutti talmente compresi nei propri ruoli da non pretendere per sé un ritaglio di libertà? Così bloccati da non sperimentare neppure un moto di sana ribellione? Io solo riuscivo a distinguere la deviazione del corso naturale delle cose e a osare una traiettoria dissonante rispetto alle rigide convenzioni sociali?
Chiusi la testa tra le mani coprendo le orecchie.
Mi accorsi che la signora seduta sulla poltroncina accanto mi osservava attentamente. Vous êtes pâle, Monsieur, êtes-vous bien?, chiese con premura.
Ebbi appena il tempo di prestarle attenzione che avvertii un dolore alle tempie, sempre più forte, e poi diffuso al capo.
Chiusi anche gli occhi.
Mi sentii inondato da un’aria bianca, saponosa, stagnante. Capii che stavo rientrando nei confini soffocanti del mio mondo.
E non volevo.
(Febbraio 2017. Photo by Pim)