Così mi scriveva cinque anni fa, la mattina del 7 gennaio 2015, la mia amica Lumi da Parigi. A pochi chilometri da casa sua aveva luogo l’attacco terroristico contro la sede del giornale satirico Charlie Hebdo. Nell'attentato, rivendicato dalla fazione yemenita di Al-Qāʿida, morirono dodici persone e undici rimasero ferite.
Pare trascorso un secolo, abbiamo sostanzialmente rimosso l’angoscia collettiva che ci attanagliò in quei giorni: di Charlie Hebdo non si parla più, il terrorismo islamico organizzato ha subito un’opera di contenimento, le priorità sembrano diventate altre tanto in Francia quanto nel resto del mondo. La crisi tra Stati Uniti e Iran, la guerra civile in Libia, gli incendi che stanno devastando l'Australia... Un'intera classe politica (Hollande, Cameron, Barack Obama) è passata, soprattutto non ci sono più Cabu e Wolinski. Sono loro, forse, a mancarci maggiormente.
Occorre cautela, è necessario restare prudenti e all’erta. Come ricorda Albert Camus ne La peste: “[Rieux] sapeva quel che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili, e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice.”