Ogni cosa ha un nome, pensò il maresciallo mentre scendeva dalla volante, ma a volte è difficile attribuire ad ognuna quello giusto. Percorse il vialetto ghiaioso sino al portone d’ingresso e suonò il campanello. Alla vista della divisa la donna trasalì. Il maresciallo si qualificò e chiese di entrare. “Dio mio, cos’è successo”, proruppe con voce innaturale. Il volto le si era acceso, e torceva inquieta le mani. In fondo al living ardeva la fiamma del camino. “Lei è la signora…”. “Sì, sono io”. Partiva da lontano, come il rituale imponeva, invece, non era che un espediente per dilatare i tempi. “Lei è la madre di Bianca…”. “Sì, sì, certo. Bianca”. La testa della donna si muoveva a scatti, posava lo sguardo dappertutto, gli occhi sgranati, in cerca di un sostegno. Il maresciallo inspirò brevemente: “Le risulta che sua figlia si trova attualmente in Birmania?”. La voce le vacillò in gola. “Sì, si è presa una vacanza ed è andata… Dio mio, mi vuole dire che è successo”. Cominciava a non controllarsi più, la tensione si era fatta insostenibile. Ogni cosa ha un nome, si ripeté il maresciallo, e questa volta spetta a me l’incombenza. “Signora, mi corre l’obbligo di informarla che sua figlia Bianca ha avuto un incidente, in seguito al quale è deceduta…”. Le mani artigliate nei capelli, la donna provò disperatamente ad urlare. Ma dalla bocca spalancata fuoriuscì appena un soffio che svanì subito nel silenzio.
Ogni cosa ha un nome, ragionava Alex mentre la sonda dell’eco gli raspava il petto. Eppure, sperava di poter prolungare ancora quella scansione di tempo sospeso che precedeva il responso. Disteso sul lettino, voltato sul fianco sinistro di tre quarti, non riusciva a vedere il monitor. Lo scalpiccio che sentiva amplificato era quello del proprio cuore. Cercò di distrarsi pensando ad altro sebbene, in quella situazione, non gli venisse in mente molto altro. Un’extrasistole partì improvvisa. No, mica vero. Davanti agli occhi aveva il viso sorridente della ragazza, i suoi lunghi capelli neri. “Schiaccio troppo?”, domandò il cardiologo che stava comprimendo le coste procurandogli un certo fastidio. “Prova a girarti. Così”, e indicò lo schermo. “Lo vedi il rigurgito diastolico?”. Certo che lo vedeva, adesso. E avvertiva con un certo disagio la resa dei conti che stava per giungere. “C’è… come capirai, la protesi aortica si sta ormai degradando. Ha diciotto anni, mi dicevi, no? Sarà opportuno eseguire un altro controllo fra sei mesi, però certo che… a questo punto occorre programmare un reintervento per sostituirla. E fare una plastica alla mitrale, per via del prolasso…”. Ogni cosa ha un nome, pensava intanto Alex, anche se non siamo capaci di chiamarle ad una ad una. La paura della morte è, tra tutte, la più innominabile. Come un rapace nel cielo essa volteggia, oscura compagna di viaggio, per la vita intera. Ma sapeva pure che, quando cala e ghermisce, la morte è così rapida che non si ha neppure il tempo di provare dolore né spavento. Questo pensiero lo confortò per un istante.
Ogni cosa ha un nome, considerava Katia mentre guardava la vetta che si ergeva sopra di lei, e io voglio nominarle tutte. Si era fermata a circa metà della cresta, l’acido lattico le bruciava i quadricipiti, era senza fiato per lo sforzo e l’altitudine. Saliva da tre ore, lo zaino appiccicato al dorso, il maglione sudato e la piccozza nella destra. Gli scarponi cominciavano a farle male, era anche scivolata un paio di volte sulle rocce, si sentiva però troppo risoluta per avvertire i sintomi della stanchezza. Non mancava molto al rifugio, si trovava proprio nel tratto più difficile. La cresta appariva stretta, giusto il posto per i piedi, e infida, per via di uno straterello sottile di neve pesta. Da ambedue i versanti, profondi canaloni precipitavano a valle per centinaia di metri tra massi e rara vegetazione. Sarebbe bastato un passo falso, un attimo d’incertezza o una perdita di equilibrio. Forse, qualche anno fa. Ora non più, si disse Katia. Calma e determinata, riprese il cammino, con il passo costante del montanaro, lento ma inesorabile. Un piede dietro l’altro, il busto leggermente proteso in avanti, lo sguardo dritto avanti a sé, senza guardare in alto. Il nome delle cose se lo sarebbe conquistato con la forza e la tenacia che aveva dentro. Appena sentì il sentiero spianare sotto di lei levò gli occhi al cielo. Sollevando le braccia, i pugni serrati, liberò quel grido di gioia che da cinque anni teneva strozzato in gola.
La pioggia scivolava sui loro volti come resina d’argento. Erano vicinissimi, tanto da potersi respirare. Gli sguardi s’incontrarono esitanti a pochi millimetri l’uno dall’altro, ma le labbra seppero colmare da sole la distanza. Dapprima sfiorandosi soltanto, poi, a piccoli tocchi successivi, trovarono un equilibrio meno insicuro. Ad esso si abbandonarono, immergendo le lingue in una morbidezza calda e umida che li travolse. Ogni cosa ha un nome, si dissero Katia e Alex. Non sapevano definire esattamente la felicità che provavano: se però essa significava vivere la vita con intensità, allora potevano disegnarne i contorni con tratti di matita e delineare un cammino. Ogni cosa ha un nome, ripeterono tra sé. Capirono allora che era possibile saltare nel buio e accorgersi di saper volare.
(Pubblicato su "Blu Agorà Caffè" l'8 dicembre 2004. Dedicato alla cara memoria di Bianca - l’unico personaggio cui non ho voluto cambiare il nome -, a “Katia” perché abbracci orizzonti sempre più alti e stellati, ad “Alex” perché il suo cuore riesca a cavarsela ancora una volta.)