Nella prima ci sono io, ho ventun anni, mi trovo affacciato a una finestra del terzo piano, reparto di Medicina Generale. Infilata nella vena di un braccio tengo una cannula che mi collega a una flebo in infusione continua. Nella piazza sottostante, illuminata dai lampioni, colgo con lo sguardo alcune persone che si scambiano gli auguri agitando sciarpe e pacchetti infiocchettati come in un film muto. Per la prima volta in vita mia invidio chi, là fuori, sta festeggiando il natale: ho sempre giudicato forzato questo rituale di baci e abbracci, ma ora mi sento dannatamente escluso. Faccio da semplice spettatore di un mondo che prosegue indifferente il proprio spettacolo, come se io non esistessi.
Nella seconda sequenza ci sono ancora io, trentatré o trentaquattro anni dopo, affacciato al terrazzo di casa in una tiepida mattina di primavera. In mano ho una tazzina di caffè fumante e negli occhi il sole che si nasconde dietro ai tetti. Abbassando lo sguardo vedo le giovani piante da frutta che stanno fiorendo nel giardino. La natura se ne frega, penso, la pandemia virale non altera il ritmo ciclico delle stagioni che si alternano immutabili, imperturbabili. La via sottostante è deserta, il silenzio assoluto viene mitigato da cinguettii vivaci che salutano il nuovo giorno. Mi sento parte di questo mondo isolato che cerca di guarire chiedendo anche il mio contributo di prudenza e pazienza.
In questa sequenza, come nella precedente, non riesco tuttavia a trovare una morale. E se anche ci fosse non saprei spiegarla.