Gli affetti instabili non hanno bisogno di certificazione.
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Gli affetti instabili non hanno bisogno di certificazione.
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Il viandante sul mare di nebbia (Der Wanderer über dem Nebelmeer) è un dipinto a olio su tela che il pittore tedesco Caspar David Friedrich realizzò nel 1818. È un quadro che mi commuove, per via del mio animo romantico (démodé, lo so) e perché rappresenta la metafora perfetta della nostra attuale condizione esistenziale.
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So che sto per esprimere un pensiero politicamente scorretto, ma è un'evidenza che balza agli occhi: i più indisciplinati, quelli più inclini a violare le norme di confinamento, sono gli anziani nonostante rappresentino la categoria maggiormente a rischio di malattia. Non parlo naturalmente di tutti gli anziani, so bene che tra loro ci sono persone assai responsabili. Il mio è un discorso forzatamente generico eppure ho parecchi riscontri di questo genere: pochi per rappresentare un dato statistico ma troppi per essere casuali o estemporanei.
Questi furbastri si ostinano a uscire, fanno capannello noncuranti, non rispettano le distanze, non indossano la mascherina, si fanno persino beffe di coloro che seguono le regole imposte dall'emergenza sanitaria. È luogo comune criticare l'incoscienza dei giovani, con qualche fondamento, ma gli anziani sono i più tremendi: assolutamente refrattari a ogni richiamo, a ogni reprimenda, temono solo le multe - per mera questione economica, non certo perché capiscono di mettere a rischio la salute propria e degli altri. Non si rendono minimamente conto del pericolo che hanno finora scampato. Non bastano ventiseimila morti (stima per difetto) negli ultimi due mesi. La loro personale credenza si fonda su questo assunto egoistico: "sì, però io...". E ingaggiano interminabili disquisizioni sulle interpretazioni dei DPCM, cercando sempre la scappatoia che giustifichi un comportamento improprio.
Ciò che personalmente mi infastidisce è la mancanza di rispetto nei confronti di chi invece sta a casa accettando le restrizioni, consapevole dell’importanza del proprio sacrificio per il bene della collettività.
Non nego che vi siano ragioni psicologiche e sociali a spiegare tale condotta. L’adozione di misure che limitano la libertà individuale impatta fortemente sulla qualità di vita e richiede un processo di elaborazione e metabolizzazione prima di giungere all’accettazione. La gran parte delle persone si ferma all'incredulità e alla negazione che sfociano in rabbia e aggressività per il confinamento così imposto. Frasi tipo “Si doveva fare prima” o “Non sarebbe meglio invece…” (definite distorsioni cognitive) sono all'ordine del giorno. È chiaro che, se si fosse fatto prima o altrimenti, molti avrebbero comunque trasgredito fregandosene di tutto e di tutti.
A questi vecchi furbastri mi limito perciò a dire: vi meritate un bel giro in rianimazione. Solo un giretto, come sulle giostre e niente di più. Non dico tre settimane sotto sedazione ma appena tre ore, giusto per fare l'esperienza del ventilatore meccanico. Venghino, signori, venghino. Vedrete come vi passerà la voglia.
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"La vita di Fenoglio è densa di queste anomalie. Da un lato il quotidiano lavoro di impiegato di provincia, gli amici del bar, gli svaghi di una generazione attraversata dalla guerra. Dall'altro il notturno lavoro di uno scrittore che proiettava in una dimensione epica le tragiche vite di contadini e partigiani. Fenoglio è uno dei più avvincenti enigmi della cultura italiana del dopoguerra."
(da Una questione privata. Vita di Beppe Fenoglio, di Guido Chiesa, Palomar, 1998)
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Ogni giorno sembra domenica, una lunga domenica senza la prospettiva del lunedì.
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Un vecchio attende nella propria stanza l’arrivo del figlio che deve accompagnarlo in una casa di riposo. Ascolta Bach e dialoga con la moglie, deceduta anni prima, intessendo lunghi discorsi sull'amore che li ha uniti, sulla vecchiaia e i guasti provocati dall'età. All’arrivo del figlio, tra i due uomini nasce una schermaglia verbale intrisa di antichi rancori e piccole crudeltà, che si allenta a tratti in un affetto incapace di esprimersi appieno. Il primo tempo si conclude così, con il vecchio che lascia per sempre la stanza e il fantasma della moglie. Nel secondo tempo il protagonista si trova nella casa di riposo. Sono trascorsi alcuni anni, il racconto della vita quotidiana si mescola ai ricordi e al bilancio di una vicenda umana al termine del proprio cammino. È giunto il momento di una serena dichiarazione di resa alla morte.
Le Ultime Lune, scritto da Furio Bordon nel 1992, ha ottenuto successo e apprezzamenti da parte di pubblico e critica sia in Italia che all’estero. Si ricorda soprattutto in quanto ha costituito l’ultima prova teatrale di Marcello Mastroianni, da molti definita magistrale. Il personaggio continua oggi a calcare il palcoscenico incarnato da un altro grande interprete del teatro italiano, Gianrico Tedeschi, ottantentenne pieno di vigore e immutata intensità espressiva. Ero ancora bambino quando, negli anni ’70, lo vedevo comparire come ospite nei programmi televisivi del sabato sera – confezionati come veri e propri spettacoli teatrali. Sarà stata la giovialità che traspariva dal suo volto, la simpatia che emanava, ma di lui ho sempre conservato un piacevole ricordo. Avere avuto, ieri sera, l’opportunità di stringergli la mano ha rappresentato per me un amabile ritorno all'infanzia in biancoenero.
Lo spettacolo è incentrato sull’interpretazione di Tedeschi, che coniuga ad arte la tipica leggerezza della sua recitazione con la rabbia repressa e la malinconia dignitosa di un anziano ormai tagliato fuori dal mondo. La condizione della vecchiaia si delinea in modo disincantato, con dettagli acuti sempre in bilico tra la commozione e il sorriso. Certo, non si può dire che l’opera tocchi vertici di particolare originalità. Essa costituisce tuttavia un’occasione per assistere a del buon teatro, professionalmente solido, resistente alla patina del tempo, godendo una lezione imperdibile d’arte e di vita da parte di un eccellente attore.
Le Ultime Lune, di Furio Bordon, regia di Furio Bordon, con Gianrico Tedeschi, Marianella Laszlo, Walter Mramor. Artisti Associati / Compagnia di Prosa Gianrico Tedeschi. Teatro Politeama, Chivasso (To), 10 aprile 2003.
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Nella prima ci sono io, ho ventun anni, mi trovo affacciato a una finestra del terzo piano, reparto di Medicina Generale. Infilata nella vena di un braccio tengo una cannula che mi collega a una flebo in infusione continua. Nella piazza sottostante, illuminata dai lampioni, colgo con lo sguardo alcune persone che si scambiano gli auguri agitando sciarpe e pacchetti infiocchettati come in un film muto. Per la prima volta in vita mia invidio chi, là fuori, sta festeggiando il natale: ho sempre giudicato forzato questo rituale di baci e abbracci, ma ora mi sento dannatamente escluso. Faccio da semplice spettatore di un mondo che prosegue indifferente il proprio spettacolo, come se io non esistessi.
Nella seconda sequenza ci sono ancora io, trentatré o trentaquattro anni dopo, affacciato al terrazzo di casa in una tiepida mattina di primavera. In mano ho una tazzina di caffè fumante e negli occhi il sole che si nasconde dietro ai tetti. Abbassando lo sguardo vedo le giovani piante da frutta che stanno fiorendo nel giardino. La natura se ne frega, penso, la pandemia virale non altera il ritmo ciclico delle stagioni che si alternano immutabili, imperturbabili. La via sottostante è deserta, il silenzio assoluto viene mitigato da cinguettii vivaci che salutano il nuovo giorno. Mi sento parte di questo mondo isolato che cerca di guarire chiedendo anche il mio contributo di prudenza e pazienza.
In questa sequenza, come nella precedente, non riesco tuttavia a trovare una morale. E se anche ci fosse non saprei spiegarla.
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Per la prima volta nella storia una rivoluzione sconvolge il mondo mentre l'umanità se ne resta seduta tranquillamente sul divano.
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