Le ragioni di questo atteggiamento affondavano nella terra dura della sua giovinezza, resa ombrosa da una figura paterna che l'aveva segnata lasciandole un sensazione profonda di indegnità morale. Il suo pareva un esilio in qualche modo prestabilito, la cui essenza conteneva però valori di verità molto sfumati che le mie imprecise inferenze non potevano penetrare.
La felicità aveva provato ad affrontarla, ne sono certo, ma dopo averla assaporata ritornava ogni volta al punto iniziale. L'immagine che ho in mente è quella di un gatto con la zampa sospesa a mezz'aria che tocca a più riprese un oggetto sconosciuto per provarne la consistenza. Alla fine la vidi ritrarsi del tutto, convinta da un impulso che le sembrò invincibile, sfuggendo a un disagio diventato ormai stagnante.
Naturalmente non ammise la sconfitta, forse neppure la riconobbe. Come disconobbe volontariamente l'abrasione con cui cancellò la mia identità, dissolvendola in un fantasma senza più diritto di parola.
Fermò semplicemente l'orologio e fece posto al silenzio che non considera repliche. Portò via con sé ogni ragionevole risposta lasciando incompiuto il resto della storia.
Si impose di dimenticare quel sogno senza potersi svegliare del tutto.
Si inflisse cent'anni di solitudine che nessuna poesia e nessun letto le avrebbero condonato.