Tutto quello che so è quello che ricordo. E devo riconoscere di non ricordare molto. Sono trascorsi trentaquattro anni ma il punto non è questo. Il punto è che, in certe circostanze, l'Io è costretto a difendersi da una realtà troppo difficile da sopportare. Si chiude in se stesso, come un guerriero nell'armatura, e la memoria smette di codificare.
L'immagine che ricordo è indistinta. C'è un ragazzo di ventun anni alla finestra, al quarto o quinto piano dell'ospedale di Moncalieri, reparto di medicina interna. È in pigiama, ha una flebo al braccio e guarda fuori. Si sta facendo buio, giù in basso i passanti tengono tra le mani borse e pacchetti colorati, si abbracciano scambiandosi gli auguri. Dietro i vetri il ragazzo prova un sentimento di esclusione che lo affligge. Sta scoprendo che il natale appartiene ai sani. Ai malati si concede qualche visita, qualche piccolo dono, giusto per mettersi a posto con la coscienza. Per il resto del tempo, un tempo interminabile che pare immobile, i malati restano soli, a guardare il mondo che sfugge senza curarsi di nulla e nessuno.
Quel ragazzo aveva sempre condotto una vita sana, goduto di buona salute. A un certo momento il suo corpo l'aveva tradito. In maniera subdola, senza una ragione, un motivo apparente. Non che mancassero i prodromi, ma il ragazzo aveva troppa voglia e fretta di vivere per considerarli. E chi aveva gli strumenti per diagnosticare quanto preoccupanti fossero sintomi e segni aveva distolto lo sguardo esprimendo valutazioni superficiali, sbrigative.
L'equilibrio si spezzò improvvisamente, come una ramo sotto la neve. Le condizioni cliniche precipitarono al punto di richiedere un rapido ricovero. 8 dicembre 1986. "Hai il cuore grande ma non penso che tu sia così generoso", provò a scherzare l'internista con il pizzetto da rabbino. Non c'era nulla da ridere, c'era da fare in fretta. Il primario con la faccia da suino decise invece di prendere tempo. Diuretici, penicillina in infusione continua, una sequela di radiografie al torace: ecco tutto. L'ecocardiografia che avrebbe fatto diagnosi con certezza venne eseguita solo dopo dodici o tredici giorni. A Moncalieri l'apparecchio non c'era o non funzionava, fu perciò necessario provvedere a un trasferimento temporaneo presso le Molinette. Nel vedere le braccia martoriate dalle flebo, lo strumentista chiese sottovoce al ragazzo se si drogasse. "Non bevo e non fumo neppure", rispose il ragazzo come se dovesse scusarsi di qualcosa.
Insufficienza aortica grave con scompenso cardiocircolatorio, fu la sentenza. Non certo inaspettata persino a un giovane studente di medicina com'era il ragazzo. Il caso clinico appariva di evidente competenza chirurgica e con tutti i crismi dell'urgenza. Ancora oggi il ragazzo non sa dare un senso alla decisione che, contro ogni logica, prese il primario con la faccia da suino: temporeggiare, temporeggiare ancora. Si proseguiva con la terapia medica. In attesa di cosa?
In attesa della notte di natale, forse, quando le condizioni cliniche declinarono improvvisamente. Squassato da una tosse persistente il ragazzo cominciò a sputare sangue. Gli usciva un gemito rauco e sommesso, una specie di mesta cantilena come di animale ferito, interrotta soltanto dalle richieste di soccorso, affinché qualcuno provvedesse. A parte l'infermiera con la camomilla, dei medici non passò nessuno. Erano tutti a casa, in famiglia, occupati a consumare il cenone della vigilia. Nel reparto non era rimasta anima viva. Dentro il buio della stanza il ragazzo mandò a cagare le luci intermittenti del presepe e i canti natalizi provenienti dalla vicina cappella. Stordito, stremato, scivolò a notte fonda in un sonno breve e agitato.
Prima di sapere cos'è la vita devi perderla. E nel momento in cui la perdi non devi credere alle favolette rassicuranti di chi descrive tunnel luminosi e visioni. Spiacente, non c'è nulla di tutto ciò. Morire è come qualcuno che spegne l'interruttore della luce alle tue spalle. Non te ne accorgi. Nell'attimo in cui la luce si è spenta sei già morto. E quando sei morto non sai di esserlo. Hai un altro livello di coscienza, paragonabile forse a quello dei vegetali, dei sassi. No time, no space. Percepisci qualcosa, come un'oscurità densa, e non provi alcuna emozione. Sei solo. Riemergere da quell'oscurità è invece molto faticoso, come risalire a mani nude dal fondo di un pozzo: la realtà si riapre confusamente davanti agli occhi e, per un lungo orribile momento, non sai chi sei, dove ti trovi, chi sono quelle facce davanti a te. E se in fondo al letto vedi una figura che ti pare di conoscere, solamente con una certa esitazione e dopo qualche interminabile istante la identifichi come tua madre.
Ho ancora oggi qualche difficoltà nel capacitarmi di essere stato io quel ragazzo. Non soltanto perché è trascorso molto tempo. È come in quei giorni la mia visione si fosse momentaneamente sdoppiata. Seguivo ciò che mi succedeva dalla mia angolazione, senza tuttavia essere del tutto dentro la mia testa. Mi scorgevo da un punto di vista esterno: di quella trama senza copione, in quel luogo inesplorato, mi ravvisavo narratore oltre che protagonista. E l'episodio dell'arresto cardiocircolatorio - perché tale fu - non fece che confermare questa sensazione straniante. Come se l'Io, in un tentativo estremo di difendere la propria integrità, si fosse persuaso di poter esercitare un controllo remoto sugli eventi: quel controllo che medici e infermieri non avevano o avevano perduto.
Nel pomeriggio fece il suo ingresso nella stanza il primario con la faccia da suino - probabilmente aveva dovuto interrompere suo malgrado il pranzo di natale. Data un rapida scorsa alla cartella si rivolse all'aiuto rabbino con magistrale sussiego: "Capisci anche tu che non c'è niente da fare". "Brutto stronzo", mormorai tra me e me, "ti faccio vedere io se non c'è più niente da fare". Il narratore segreto invocava ancora un capitolo, almeno uno, ritardando per quanto possibile il finale.
Secondo i canoni della tragedia greca entrò a quel punto in scena il deus ex machina. Venere era, in effetti, l'improbabile cognome del primario di cardiochirurgia al San Martino di Genova. Improbabile soprattutto per l'aspetto non da divinità olimpica ma di anziano montanaro: camicia a scacchettoni, baffi bianchi, la pipa in bocca (spenta), un piccolo tic nervoso agli occhi. Il professor Venere era qualcosa di più d'un conoscente di famiglia e qualcosa meno d'un amico. Quella mattina si accomodò al tavolino, lesse tutti i referti in silenzio assoluto, quindi mi auscultò con la calma imperturbabile del giocatore di scacchi. Il primario, visibilmente infastidito dall'intromissione, aprì bocca solo una volta: "Gli abbiamo dato penicillina come profilassi". "Già già" bofonchiò Venere senza mutare minimamente espressione. Al termine del consulto, intrattenendosi in separata sede con mamma, espresse però il suo pensiero in maniera eloquente: "Al ragazzo bisogna fargli cambiare aria" e così dicendo le fece l'occhiolino.
Mi attendeva l'aria salutare di Genova, dove venni trasferito verso la fine di dicembre. Dapprima al Galliera, in cardiologia, per rimettermi in sesto e prepararmi all'intervento. Quindi nel reparto di cardiochirurgia del San Martino per la sostituzione valvolare, programmata durante i primi giorni di gennaio. Infine ancora al Galliera per il successivo periodo di convalescenza. Questa parte di storia costituisce tuttavia un'altra storia che, chissà, magari un giorno vi racconterò. La conoscono in pochi, sinceramente non ho mai sentito la necessità di parlarne o di scriverne diffusamente. Mi rendo conto che una ragione c'è e non indago oltre. Posso dire comunque di aver introiettato l'intera vicenda che mi capitò all'improvviso e inaspettatamente con spirito di serena accettazione: ognuno possiede il proprio karma e questo è stato, in tutta evidenza, il mio.
Sì, lo so: ho perduto molte cose, a cominciare dall'innocenza, ma ne ho guadagnate altrettante in termini di consapevolezza. È vero che si sono aperte ampie lacune nella mia mente, sulle quali devo lavorare quotidianamente, ma avrei potuto diventare un essere umano peggiore se mi fossi dimostrato incapace di superare quel trauma. Di più: forse non avrei mai avuto modo di sviluppare alcune parti buone della mia personalità, di acquisire determinate qualità di cui vado fiero. Certo: avrei potuto fare di più nel corso della mia esistenza, raggiungere più obiettivi e ottenere maggiori soddisfazioni, tuttavia avrei potuto anche essere sottoterra da molto tempo. Direi che a essere vivo, tutto sommato, ci ho guadagnato. Sono grato a chi mi è sempre rimasto accanto, nella buona e nella cattiva sorte (come si suole dire); di converso non provo rancore per coloro che invece si sono eclissati senza proferire parola. Non importa, va bene così. Siamo tutti destinati a svanire nell'Altrove, lasciandoci dietro appena un pulviscolo di cenere, sebbene il nostro stupido Io non concepisca la propria assenza definitiva e si ostini a prendersi sul serio. Questo è, alla fin fine, ciò che ho appreso dalla mia storia di ospedali e protesi valvolari. Ne valeva la pena, o no?
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