(5 aprile 2021)
Fatico a riconoscerlo, ingrassato e imbiancato come un pupazzo di neve. Esce dall'abitazione dei vicini di casa - suppongo che l'abbiano invitato a pranzo - facendo ciao ciao con la mano. Saremmo in zona rossa e lui neppure indossa la mascherina, ma i preti (siamo alle solite) presumono di essere superiori a leggi e normative. Lo osservo mentre sale in macchina, una vettura scura di grossa cilindrata, fa manovra e si allontana rombando dietro l'angolo.
Non mi stupisco che non abbia suonato il campanello. Non gliene importava un accidenti o magari neanche più si ricorda chi sono. Meglio così, in ogni caso.
A suo tempo qualcuno si prese il disturbo di recarsi in parrocchia per parlargli male di me, prima ancora che mi trasferissi qui, senza neppure conoscermi. E quando dico qualcuno non mi riferisco ai soliti ignoti ma a persone precise, con un nome e un cognome. Le ragioni mi furono nascoste per anni però giunsi a capirle da solo, un dettaglio per volta. La calunnia è un venticello e i suoi refoli maleodoranti possono intossicare una vita sino a determinarne la morte sociale. E per certa gente io sono morto, semplicemente non esisto.
Vai don Beppe, vai. Ci siamo conosciuti esattamente vent'anni fa, hai celebrato il rito religioso che dovevi e non ho nulla contro di te. Hai soltanto concesso troppa attenzione a qualche perfida comare intenzionata a fare il male, hai prestato ascolto a pettegolezzi privi di qualunque fondamento reale. Ci siamo incontrati in alcune occasioni, abbiamo scambiato quattro chiacchiere e niente di più. Alla curiosità malsana che leggevo nei tuoi occhi ho opposto il velo spesso del riserbo che mi contraddistingue.
Che altro dire. Io non piacevo a te e tu non piacevi a me. La storia, per quel che mi riguarda, si era conclusa ben prima che svoltassi all'incrocio. Resta quella massima di Confucio: il benpensante di paese è il parassita della virtù.