Quando invece senti dire le cose non vanno bene, ti scopri improvvisamente turbato perché supponi di quale storia possa trattarsi. Uno stillicidio di preoccupazioni, di relazioni da gestire, una vita da organizzare tra home working e didattica a distanza. La storia inanella termini inconsueti per il vocabolario moderno, quali contagio o quarantena, che ripetuti quotidianamente sono diventati familiari.
Ci si passa accanto, con la mascherina calata sul viso, senza potersi stringere la mano e non si sa bene cosa rispondere a quelle frasi smozzicate. Si ha a malapena la forza di improvvisare qualche parola di conforto, per nulla convinti che possa servire di sostegno. L'interrogativo si ripete come un mantra: il vaccino, certo, il vaccino, AstraZeneca o Pfizer, ma quando torneremo alla vita di prima?
Alzo lo sguardo. Le immagini di persone che si rifugiano quasi clandestinamente nel verde della campagna in fiore, in fuga dalla reclusione, in cerca di svago, rievocano i racconti dei miei nonni. Erano gli ultimi giorni di guerra: la gente non ne poteva più, esasperata com'era dai bombardamenti e dal tiro dei cecchini, sfinita per i viveri razionati e le cattive notizie. Non restava che aggrapparsi alla speranza di un futuro di là da venire, qualunque fosse, purché non somigliasse al presente.
Aprile 1945, aprile 2021. C'è un filo comune, un destino freddamente ostile che ci attraversa e ci perseguita.
Siamo impotenti, ora come allora.
Un'altra primavera perduta.