Abbiamo attraversato giorni e mesi difficili, barricati in casa, appesi ai balconi e ai terrazzi, isolati gli uni dagli altri, i negozi e i cinema chiusi, le strade desolatamente spopolate. Lockdown, mascherine, distanziamento sociale, home working, didattica a distanza le nuove parole d'ordine a scandire le giornate diventate improvvisamente vuote, le abitudini stravolte.
L'Italia è stata il Paese europeo più colpito durante la fase iniziale della pandemia, quando nessuno riusciva ancora a capacitarsi di quanto stesse capitando. I bollettini giornalieri dei contagi e dei morti parevano usciti da un'altra epoca storica, quando la Seconda guerra mondiale straziava il vivere quotidiano. Le immagini televisive sembravano provenire da un film di fantascienza: la lunga fila di camion dell’Esercito riempiti di bare, le ambulanze davanti agli ospedali, lo sguardo stravolto e smarrito del personale sanitario. Inconcepibile, eppure tutto tremendamente reale. E poi l'avvicendarsi estenuante tra zone rosse e zone gialle, il sentimento di incertezza dominante, l'alternarsi di riaperture e chiusure, l'istinto di ribellarsi e di approfittare degli scampoli di libertà concessi. Torneremo alla vita che facevamo prima?, la domanda ricorrente durante l'ultimo anno. Nei vaccini finalmente disponibili una delle risposte possibili, certamente la principale.
Non so se esistano il fato, il destino, la provvidenza, oppure non sia nient'altro che la casualità a determinare le esistenze personali e collettive. Fatto sta che ieri sera, mentre Chiellini alzava la Coppa, Mancini abbracciava Vialli e tutti i ragazzi azzurrovestiti festeggiavano correndo per il prato di Wembley, si è aperta nel cuore di molti italiani la sensazione che la sorte ci stesse consegnando un prezioso premio di risarcimento. La felicità dilagante a macchia d'olio nelle piazze raccontava anche la celebrazione della fine (almeno simbolica) di un periodo lungo e oscuro della nostra storia.
Non dico che lo sport debba necessariamente rappresentare una risposta consolatoria, che il calcio, in particolare, possa riparare i danni generati dalle sventure che sopraggiungono nella vita. Il risultato positivo conseguito da un atleta o da una squadra nazionale va però considerato come un'occasione di riscatto sociale. Soprattutto un mezzo per rafforzare fiducia e autostima collettive. E anche il momento per tornare ad abbracciarsi dopo un anno e mezzo di incertezze, inquietudini e sofferenze.
Andrà tutto bene era la frase che ci si ripeteva come un mantra. Non è andato tutto bene, lo sappiamo perfettamente. Ma ieri sera a Wembley sì, è andato tutto bene. Non per caso o per sorte ma perché, grazie al lavoro e al talento, siamo stati capaci di conquistare un titolo che sembrava impossibile: quello di campioni d'Europa. Un titolo benaugurante, uno sprone per ricominciare a vivere con forza ed entusiasmo rinnovati.