Conobbi Cristina in un arioso mezzogiorno di primavera del 1981, avevo appena compiuto sedici anni e frequentavo la quinta ginnasio. Mi trovavo alla fermata del 56 in Via Po e stavo riflettendo soddisfatto sul sette e mezzo di latino appena guadagnato, quando si avvicinò una ragazza che mi chiese se anch'io frequentassi il Gioberti. Le risposi affermativamente, quindi ci presentammo e iniziammo a chiacchierare del più e del meno. Scoprimmo di attendere lo stesso autobus e finimmo per prenderlo insieme: io andavo sino al capolinea di Corso Quintino Sella mentre lei scendeva dopo appena quattro fermate. Ricordo perfettamente che mi salutò con un gesto lieve della mano, come se avesse lasciato andare un invisibile palloncino colorato verso il cielo.
Piacevolmente sorpreso dalla situazione, era la prima volta che mi capitava un fatto del genere, nei giorni seguenti provai a cercarla lungo i corridoi durante l'intervallo. Mi ero prefisso di usare una certa discrezione e fingevo spudoratamente di imbattermi in lei per caso. Ci intrattenevamo allora piacevolmente fino al segnale della campanella che decretava la fine della ricreazione e, talvolta, qualche minuto oltre.
Si venne progressivamente a stabilire un rapporto di cordiale amicizia che, in maniera abbastanza continuativa, sarebbe durato all'incirca un paio d'anni. All'uscita della scuola ci ritrovavamo alla fermata dell'autobus e, in più di un'occasione, l'accompagnai sino al portone di casa (abitava dalle parti di Via Asti). Uscimmo anche qualche volta insieme, di sabato pomeriggio, per una passeggiata e un gelato nel centro città. Era evidente che ci piacessimo, ma tra noi non ci fu mai nulla di sentimentale.
Cristina era una bella ragazza, aveva un fisico lievemente prosperoso come piaceva a me. La camicetta bianca sbottonata lasciava intravedere seni floridi, ben modellati, e le gambe erano fasciate da jeans aderenti che parevano sempre sul punto di strapparsi. Trovavo soprattutto grazioso il viso dai tratti regolari, atteggiato perennemente a un sorriso malizioso che le faceva strizzare gli occhi, di un castano molto chiaro. I lunghi capelli biondi, ossigenati come si usava al tempo, erano sovente raccolti in una coda che le conferiva un'aria sbarazzina. A sua insaputa, alcuni miei compagni di classe la prendevano in giro per il suo modo di camminare un poco ciondolante che, lo riconosco, somigliava un po' a quello di un palmipede. Io non badavo troppo a tali insinuazioni, espressione peraltro di un certo sarcasmo tipico negli adolescenti, preoccupandomi piuttosto di non far capire che Cristina mi attraeva. Allora ero troppo riservato per trovare il coraggio di dichiararmi ma, onestamente, non ne ero innamorato: cercavo la sua compagnia perché mi metteva di buonumore e sapevo di non esserle indifferente, mi bastava questo.
Ricordo che, con aria divertita, mi appellava secchia o secchione. In effetti ci voleva poco ad avere un rendimento migliore del suo, invero piuttosto mediocre. Era già stata rimandata di un paio di materie e, al termine dell'anno scolastico successivo al nostro incontro, venne direttamente respinta. Mi comunicò quella notizia un giorno di giugno del 1982, erano appena iniziati i Mondiali di calcio in Spagna, tuttavia non mi parve particolarmente turbata. Al contrario, mi invitò ad aggiungermi ad alcuni suoi amici per assistere ad uno spettacolo teatrale in programma all'Alfieri. Dovetti declinare, stavo per partire alla volta di Gressoney dove avrei trascorso le vacanze estive.
Non se ne fece niente e non se ne fece mai più niente: non avemmo più l'occasione di sentirci e la persi di vista. Non ricordo le ragioni, ma credo che esse vadano ricercate soprattutto nella labilità dei rapporti che gli adolescenti stabiliscono con i propri pari. Seppi da un'amica comune che aveva cambiato casa e successivamente scuola. Si era iscritta a un liceo privato, uno di quelli in cui è sufficiente versare regolarmente la retta per essere promossi senza grossi problemi.
La rividi circa un anno più tardi, a una fermata dell'autobus come la prima volta che ci eravamo incontrati. Rimasi subito turbato per l'aspetto poco curato, era struccata e teneva i capelli spettinati sulle spalle. Indossava un maglione informe, sotto cui potevo percepire che il suo corpo avesse perso quelle proporzioni armoniose che me la rendevano attraente. Anche quel sorriso sfrontato l'aveva abbandonata.
Mi disse che, il giorno di Natale, le era morta all'improvviso la madre.
Con la scusa di asciugarsi una lacrima affiorata sul bordo di una palpebra, si sottrasse al mio abbraccio. Si voltò quindi di scatto e la guardai salire sul primo mezzo pubblico che, nel frattempo, era sopraggiunto alle sue spalle.
Se ne andò così e di lei non seppi più nulla.
(Prima stesura: dicembre 1993. Nella foto: il Giovane Pim, maggio 1981)