Confesso che la morte di James Bond, per quanto annunciata, mi ha emozionato nel profondo. Sono cresciuto con i film di 007 e gli sono affezionato come a un parente. Anzi, ai miei occhi appare più reale di certi parenti ormai dati per dispersi.
L'epilogo esplosivo rimane però l'unico passaggio memorabile di No Time To Die. Daniel Craig è stato il Bond più moderno, animo sensibile in una scorza di muscoli guizzanti, più serio e meno guascone dei suoi predecessori: peccato che le sceneggiature spesso arzigogolate non l'abbiano assistito come avrebbero dovuto. No Time To Die non fa eccezione. La confezione è spettacolare as usual ma il plot appare scontato e tirato un po' per le lunghe. Latita inoltre il proverbiale e dissacrante sense of humour bondiano, a scapito di uno stucchevole sentimentalismo virato verso il politically correct. La Bond girl di turno (Léa Seydoux) appare anodina, debole e poco interessante il classico villain (Rami Malek) che fa rimpiangere i diabolici cattivoni visti in altre occasioni.
Beninteso, non si tratta di un brutto film. Al contrario, il Bond-fan trova qui tutto quello che può attendersi: dalle sequenze acrobatiche ai gadget, dalle scorribande automobilistiche (notevole quella girata a Matera) alle sparatorie più dirompenti.
La questione di fondo è un'altra: il franchise James Bond galleggia ormai fuori dal tempo. Il mito, il simbolo totemico direbbe qualcuno, resiste ma resta irrimediabilmente figlio di un'altra epoca storica. Il reboot non è bastato ad attualizzarlo del tutto, pur conferendo al Nostro tormenti e momenti di inedita vulnerabilità. Nemmeno la secca didascalia posta al termine dei chilometrici titoli di coda fa tirare un sospiro di sollievo al Bond-fan: 007 non esce definitivamente di scena e, prima o poi, ritornerà sugli schermi. Non si riesce però a immaginare una possibile evoluzione narrativa che lo renda ancora originale rispetto ai soliti action movie e lo riporti ai fasti del passato.