Il giudice è un vecchio signore curvo che cammina male, ha le gambe vistosamente arcuate e nei piedi porta un paio di brutte pantofole marroni. La toga gli sta larga, cade da tutte le parti, sembra appesa alle spalle di un manichino. Dovrebbe suscitarmi pena, un tempo gli volevo bene, ma non dimentico che lui è qui con la precisa intenzione di condannarmi.
Dopo essersi issato a fatica sullo scranno più alto sembra ritrovare all'improvviso uno sprazzo di antico vigore. Impugnato il martelletto lo picchia furiosamente dichiarando, con voce stentorea, aperta l'udienza. Poi, scrutandomi con occhi cattivi, comunica qualcosa al cancelliere che gli siede accanto.
Mi sfuggono le ragioni per cui se la stia prendendo con me, però credo che abbiano più a che fare con il suo Io. Non ci frequentiamo da anni, in pratica non sa nemmeno chi sono e probabilmente non l'ha mai saputo. Sta per giudicare un estraneo, perciò sono consapevole che non può ferirmi.
Resto in debito silenzio e attendo la sentenza come si attende la cameriera che serve il tè. Deduco che non abbia alcuna idea di quali siano i capi di imputazione e che, scartabellando freneticamente le carte, cerchi un pretesto per emettere il verdetto di condanna.
Dietro il banco degli imputati accavallo e scavallo le gambe per riattivare la circolazione.
Il giudice si sistema gli occhiali da lettura sulla punta del naso e mi fissa con sguardo severo. Poi agita il martelletto in aria e sentenzia: << Pim, ricordati che tutto ciò che scrivi potrà essere usato contro di te >>.
Mi alzo di scatto e, contravvenendo il rituale, replico: << L'hanno fatto in tanti, dimostrando di non capire un cazzo >>. Nel brusio di sorpresa che si è levato dal fondo dell'aula giudiziaria aggiungo a mezza bocca: << Coglioni >>.
Il giudice riprende a dare martellate sullo scranno chiedendo ripetutamente che il pubblico faccia silenzio. Poi mi punta il dito indice storto e, con il volto paonazzo, stravolto dall'ira, intima: << Togliti quel costume di gomma da clown! >>.
Impassibile, lo osservo scomparire dietro un nugolo di teste che si frappongono confusamente.
<< Dì quel che cazzo ti pare >>, mormoro, << tanto per me sei già morto >>.