Sul comodino accanto al letto c'è posto appena per un bicchiere, un paio di riviste e, sopra di esse, un libro. L'infermiera si è raccomandata di tenerlo ordinato perché il professor Vecchio è molto esigente al riguardo: in certi casi, quando l'esiguo spazio è occupato da oggetti alla rinfusa, fa sgomberare tutto sfoderando modi estremamente bruschi.
Il mio compagno di stanza è un anziano medico che non ama molto chiacchierare e la cosa mi fa sinceramente piacere. In queste interminabili giornate ospedaliere, nelle quali il tempo pare fermarsi di tanto in tanto come un orologio malfunzionante, conosco un solo modo per distrarmi: leggere.
Sul mio comodino, dicevo, trova posto un libro che ho cominciato quando sono arrivato qui, nel reparto di cardiologia del Galliera. Me l'ha acquistato mamma in una libreria di via XX Settembre, nel centro di Genova. Per non dimenticare il titolo ha dovuto appuntarselo su un pezzo di carta. L'insostenibile cosa? L'insostenibile leggerezza dell'essere, non è difficile.
Non si tratta precisamente di una di quelle letture che si è soliti fare in ospedale, dove i quotidiani sportivi e le parole crociate ottengono maggiore successo. In realtà avrei voluto dedicarmici prima, ma negli ultimi mesi le mie condizioni di salute erano andate peggiorando e non mi sentivo di dedicargli l'attenzione che ritenevo necessaria. Quella stanza silenziosa rappresentava invece il luogo opportuno per immergermi in una lettura concentrata, nonostante le visite e gli esami strumentali cui venivo ripetutamente sottoposto. Quando un ventunenne manifesta improvvisi e allarmanti sintomi cardiologici è ovvio che si attivino tutte le modalità diagnostiche e con una certa urgenza. Soprattutto se durante il ricovero precedente, in una struttura del torinese, i medici non hanno saputo prendere provvedimenti opportuni perdendo tempo prezioso.
Mi ci vollero appena poche pagine per immedesimarmi nello spirito del romanzo di Kundera. Fu un autentico colpo di fulmine. Quello stile così persuasivo e penetrante mi prese completamente. Nei giorni compresi tra la fine del 1986 e l'inizio dell'87 mi lasciai sedurre dalle complesse vicende amorose di Tereza e Tomaš, di Franz e Sabina, sfumando i confini esistenti tra il reale ospedaliero e l'irreale letterario. In esse trovai un modo per dilatare le ore e riempire i pensieri. Attraversavo il presente con gli occhi bendati, smarrito, neanche tentavo di immaginare o di indovinare l'enigma che il mio corpo stava vivendo.
Una sera, tenevo appunto il libro sul comodino, entrò la suora che aveva le mansioni di caposala e, nel porgermi alcune capsule di antibiotico, diede un'occhiata alla copertina. L'edizione Adelphi era quella con l'immagine della donna nuda, e lei non seppe trattenere una smorfia assai eloquente. Decisi allora di voltare il libro dalla parte del retro onde evitare eventuali rimbrotti: non avrei avuto energie sufficienti per replicare ad una questione che sarebbe sembrata francamente risibile.
Lo trovò così, con la quarta di copertina in bella mostra, il professor Venere che era primario di cardiochirurgia al San Martino e che, di tanto in tanto, passava a farmi visita. Di lì a qualche giorno mi avrebbe operato per sostituire la valvola aortica con una protesi meccanica e l'esito dell'intervento sarebbe dipeso in larga misura dalle mie condizioni di salute. Esauriti i convenevoli di argomento medico prese in mano il libro e cominciò a sfogliarlo. Strinse tra le labbra la pipa (spenta), aggrottò la fronte rugosa e per qualche minuto sprofondò nella lettura restando in piedi al fianco del letto. Strizzò quindi più volte gli occhi, un tic che mostrava spesso, fece una risatina e restituendomi il libro sentenziò con tono allusivo: "bene, bene". In seguito mi domandai su quale passo si fosse soffermato e arrivai alla conclusione che, con tutta probabilità, la sua attenzione si era focalizzata su qualche descrizione erotica.
L'insostenibile leggerezza dell'essere caratterizzò fortemente quei giorni nel reparto di cardiologia, nei quali venni messo in grado di affrontare un intervento che, per come si erano messe le cose, avrebbe potuto essere insostenibile per il cuore. Ancora oggi, quando mi capita di riprendere in mano il volume, mi sembra di vederlo illuminato dalla luce al neon di quella stanza del Galliera e persino di ritrovare tra le sue pagine l'odore di qualche disinfettante.
Resterò sempre grato a Milan Kundera per la fuga nell'immaginario che il suo romanzo mi permise di compiere dal letto d'ospedale. Una fuga in qualche modo salvifica, perché mi consentì di entrare dolcemente in una realtà parallela posando il fardello che gravava sulle mie spalle - riempito da camici bianchi, farmaci e procedure diagnostiche. Questi ricordi appena accennati, che somigliano a pennellate casuali su una tela consumata, non svaniscono oggi con la morte di Kundera. Si fanno al contrario più salienti e, se possibile, ancora più vividi. Una parte di me si è fissata là, in quel tempo remoto. Dovrei togliermi la benda che tengo ancora oggi sugli occhi ma forse è opportuno che rimanga dov'è.
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