quand'ero ragazzo e andavo al cinema e i cinema erano pieni di gente arrivavo in anticipo per fare la fila alla cassa sotto gli ombrelli sgocciolanti, acquistavo i biglietti con gli spiccioli in mano e li porgevo subito alla maschera - sguardo torvo d'ordinanza -, poi cercavo a tentoni un posto in sala e che i posti fossero due, per me e per Lidia, due posti vicini e il più possibile centrali, evitando di far spostare gli spettatori già accomodati con i cappotti poggiati agli schienali delle poltrone, sperando che le persone sedute davanti non fossero di statura troppo alta e impedissero la visione (almeno quando non baciavo Lidia), perché detestavo incocciare in una nuca oscura e dover inclinare di lato la testa, tra la nuca e quella vicina, e le nuche non ondeggiassero continuamente tra i sedili e nemmeno parlassero tra loro, soprattutto quando l'audio non era abbastanza alto, detestavo zittirle - ssstizzito - o magari le immagini erano sfocate, distorte, fuori schermo (mascherinooo!) e detestavo l'idea che il film non piacesse a Lidia soprattutto se il film lo sceglievo io - io sono sempre stato quello che sceglieva i film -, la domenica pomeriggio di certi autunni interminabili ovattati di nebbia lattiginosa, quando gli anni erano quelli fragili dei vent'anni e i miei passi calcavano morbidi la moquette rossa un poco consunta, pestando carte di caramelle cadute dalle tasche, la pellicola scorreva nel proiettore facendo clac-clac e io sprofondavo nel buio luminoso della sala, l'inquietudine si scioglieva nel petto, i pensieri venivano assorbiti dalle tende pesanti in fondo alla sala, da questa parte del grande schermo della vita, nel millenovecentottantacinque, quando il cinema si vedeva al cinema e il mondo aveva ancora un senso e posti liberi a sedere