Nel pieno della notte, potevano essere le quattro, venni svegliato di soprassalto dalla voce modulata di un mueżżìn che, dalla sommità di un minareto, invitava i fedeli alla preghiera del mattino. Ancora sotto l'influsso del viaggio aereo, ero giunto poche ore prima a Tel Aviv con un volo El Al partito da Milano, ebbi la sensazione di essermi improvvisamente perduto. Mi sembrava di galleggiare in uno spazio vuoto senza dimensioni: privato dei consueti punti di riferimento sensoriali mi sentivo disorientato, smarrito, dimenticato. A risvegliarmi non erano stati i rintocchi notturni di un campanile ma una voce cantilenante che proveniva da qualche parte nel cielo stellato. Una voce irreale, vagamente inquietante, che diffusa dagli altoparlanti riecheggiava insistente sulle pareti degli edifici di cemento intorno all'hôtel.
Compreso in uno stato fluttuante tra il sogno e la veglia, mi ritrovai avvolto in un sacco amniotico del quale percepivo la consistenza cedevole senza intuirne i confini. Quel ritmo ipnotico da flauto magico, quella salmodia lenta e ripetitiva, quei semitoni allungati sino allo spasimo costituivano un richiamo arcaico cui capivo, sbigottito, di non poter resistere.
Quella musicalità così articolata chiedeva una resa tanto rispettosa quanto disciplinata al mistero. Mi lasciai insensibilmente irretire dal desiderio arcaico, forse infantile, di abbandonarmi al volere di una presenza superiore, sovrastante. Finché cedetti a quella specie di abbraccio liquido e sprofondai in un sonno silenzioso, privo di pensieri.