
Non guardare le serie è un po’ come, per un lettore dell’Ottocento, disdegnare i romanzi d’appendice. L’affinità è fin troppo evidente. Lo è pure la differenza, comunque. I feuilletton erano opere di un solo autore mentre le serie, naturale evoluzione del cinema, sono un prodotto collettivo in quanto prevedono numerosissimi autori e altrettanti interpreti. Lo spiegamento di risorse e mezzi previsto avvicina, inoltre, questi prodotti contemporanei ai teleromanzi che trasmetteva la Rai qualche decennio fa riscuotendo un grande successo di pubblico.
Lo confesso: non sono un grande appassionato di serie e prediligo i film. Sebbene alcune di esse siano ben confezionate, inutile discuterne, non mi piace la moda che da parecchi anni accompagna tale fenomeno mediatico. Non si parla d'altro. Qualche anno fa erano tutti davanti a Game of Thrones, a La regina degli scacchi, a La casa di carta, a Squid Games: mariti, mogli, figli, amanti, amiche e amici. Tutti tranne me, che ho ceduto solo in tempi più recenti. Ho seguito con interesse e - devo ammetterlo - con vero piacere Dahmer, Baby Reindeer, Ripley... Nei mesi scorsi ho apprezzato molto Dostoevskij, Cent'anni di solitudine e soprattutto M. Oggi ho terminato di vedere Asura, serie ideata e diretta da Hirokazu Kore'eda, un autentico gioiellino.
No, non ho cambiato parere, o perlomeno non del tutto. Semplicemente ho provato a riflettere su alcuni aspetti che non avevo precedentemente considerato. La serialità si può rendere necessaria nelle opere di origine letteraria (il romanzo-fiume di Marquez sarebbe improponibile nella durata classica di due ore) o dalla complessità narrativa che richiede tempi lunghi e approfondimenti psicologici. Le serie che ho citato sono state inoltre realizzate da Sky e Netflix con metodi prettamente cinematografici - fotografia, luci, montaggio, musica originale - solitamente non usati nelle fiction più ordinarie proposte, ad esempio, da Rai o Mediaset.
Ebbene sì, ora posso ammetterlo, ho cominciato ad apprezzare le serie ma non sono diventato un fanatico. Mi dà più che altro fastidio il fatto che, chi non le guarda, per qualunque motivo, abbia la sensazione di esser escluso da un club privato, di quelli in cui si entra soltanto con la parola d'ordine. Certo: l'attualità invoglia a un certo distacco dalla realtà, occorre pur distrarsi dalle cattive notizie (vere, verosimili o false del tutto) che martellano le nostre giornate. Ci troviamo però di fronte alla stessa serialità imposta a suo tempo da Dallas, Beautiful o Twin Peaks (realizzato però da David Lynch e quindi difficilmente collocabile all'interno di un genere preciso) che radunavano davanti allo schermo domestico milioni di persone. I pochi che si sottraevano al rito celebrato con cadenza predeterminata e regolare erano considerati appartenenti a una setta iconoclasta. Setta di cui io, ci potete giurare, facevo parte.
Un'ultima obiezione personale: ho qualche difficoltà psicologica nell'organizzare intorno alle serie un appuntamento fisso: temo che finirei per considerarne la visione quasi un dovere, un imperativo categorico capace di svuotare il piacere di assistervi e, a lungo andare, di creare dipendenza. Non appartengo a quella miriade di nottambuli, ne conosco alcuni, che trascorrono ore insonni sul divano facendo indigestione di episodi e di cibo spazzatura. Non parliamo poi dell’enormità del tempo investito in una full immersion e della spossatezza fisica che ne può derivare. Questo è il motivo per cui prediligo le miniserie composte da pochi episodi, sei-otto al massimo, e che prevedono una sola stagione.
Piuttosto, mi oriento tranquillamente su film ritenuti minori, piccoli: un noir coreano, una commediola francese, un dramma scandinavo, un anime giapponese passato inosservato. Opere uniche, autosufficienti. Perché cavalcare il mainstream, che non ne ha bisogno? Perché non proiettare luce sul cinema meno gettonato ma altrettanto affascinante (se non più) delle serie maggiormente celebrate?
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