"Scrivendo, esistevo", ricordava Jean-Paul Sartre nella sua autobiografia pubblicata nel 1964. "Avevo nove anni [...]. La penna correva così rapida che spesso mi doleva il polso; gettavo i taccuini riempiti sul pavimento, finivo col dimenticarli, infine sparivano; per questo motivo non portavo a termine nulla. [...] Scrivevo per scrivere. Non me ne pento; se i miei scritti fossero stati letti da qualcuno, avrei cercato di piacere. Sarei ridiventato meraviglioso. Essendo clandestino, fui veritiero."
In queste parole mi riconosco appieno. Ho sempre tenuto la penna in mano, fin da bambino. Non andavo ancora a scuola e già disegnavo storie fantastiche, avventure di terra e di mare. Le buttavo giù in un bloc-notes con l'animo in subbuglio, suggestionato da qualche racconto appena letto o ascoltato. Verso gli otto-nove anni cominciai a tenere regolarmente un diario che, com'era consuetudine, tenevo gelosamente nascosto in un cassetto e nel quale annotavo fatti quotidiani, pensieri improvvisi.
Scrivevo per fermare certi momenti che mi apparivano salienti e ricordare a me stesso, con un certo stupore, che esistevo davvero. Io ero coscientemente io quando ogni emozione o stato d'animo prendevano una forma concreta, tangibile, trascritta nero su bianco. In quelle carte racchiudevo il me stesso oggetto della mia indagine, riportando tutto quanto mi sembrasse significativo per la mia identità in formazione. Non avevo bisogno di essere sincero né bugiardo: al riparo dal giudizio altrui ero le due cose contemporaneamente.
Diversamente da Sartre conservo ancora oggi molti documenti: sono agende riempiti da una calligrafia fitta, album di disegni, quaderni vergati di schizzi e parole. Ogni volta che riapro quelle pagine provo a un tempo sorpresa e conferma. Riconosco tanto le continuità quanto le discontinuità, le ingenuità stilistiche come i piccoli colpi d'ala. Alcune cose le avevo dimenticate, altre credevo fossero andate perdute: invece sono lì e, contemporaneamente, ancora dentro di me. Vive, presenti, a testimoniare chi ero allora e chi sono tuttora.
Pur essendo compromesso inevitabilmente con la socialità, per sua stessa natura, Scrivere i risvolti rappresenta la prosecuzione ideale dei diari che scrivevo un tempo. Potrei definirlo un diario segreto in pubblico, in cui annotare eventi e riflessioni private accessibili a lettori virtuali - nel senso di potenziali. Non infilo foglie e fiori secchi tra le pagine, come si usava un tempo, ma molto di quello spirito è entrato (consciamente o meno) a far parte di questo blog. Che in effetti è anch'esso un po' clandestino: alcune delle persone con cui condivido la quotidianità ignorano bellamente questa attività da carbonaro che porto avanti da sedici anni.
Scrivere i risvolti resta al di qua delle scritture destinate a essere lette, dalle corrispondenze private fino alle pubblicazioni. Non è destinato con protervia ai posteri ma rappresenta una sorta di soliloquio rivolto, almeno provvisoriamente, a me soltanto e alla mia futura memoria. Come bava di lumaca lascio sullo schermo flussi silenziosi di coscienza (oh, Molly Bloom…), con l’illusoria speranza che sia possibile dare un ordine alla mia vita semplicemente riscrivendola.
Lo pseudonimo che uso fin dalle mie prime apparizioni nel mondo dei social media (esattamente vent'anni fa) rende il blog in qualche misura asociale, lontano com'è dalla filosofia di fondo che anima ad esempio Facebook o Twitter. Frequento i social network e perciò so bene che i post o i tweet, scritti per un pubblico di cosiddetti "amici", fingono spesso una sincerità venata di ipocrisia oppure (paradossalmente) una franchezza talmente scoperta da risultare imbarazzante (quando non irritante). Anch'io, come tutti, non sono immune da certe tentazioni narcisistiche ma, se non altro, mi impegno a non farmi prendere da quella che reputo più insidiosa. Nella maggior parte dei casi, chi scrive tende (volutamente o meno) a dare il meglio di sé: e dal momento che il meglio di sé si misura con i giudizi altrui – like, emoji, retweet – finisce per concedere il peggio. Cerca di piacere, per usare le parole di Sartre, e questa smania annichilisce quel sano principio di realtà che non dovrebbe mai venir meno.
Per come lo intendo io, l'utilizzo di uno pseudonimo dissolve parecchie preoccupazioni. Solo poche persone conoscono l'identità dietro la quale si cela Pim e questo permette all'Io scrivente una maggiore libertà espressiva. Protetto dall'anonimato, ho a disposizione uno spazio nel quale muovermi senza problemi e senza rischi. Dove posso osare, sperimentare, mettermi alla prova negli scenari più svariati. Dove il mio Io alternativo è incoraggiato a rivelare tratti della personalità che le inibizioni e il controllo sociale spingerebbero invece a reprimere.
Qualcuno potrebbe giudicarmi incauto oppure sprovveduto, poiché getto sconsideratamente in pasto al mondo i miei pensieri con la serena convinzione che verranno recepiti per come li ho intesi. Quasi mai capita così. Ma, in fondo, che importa? L’unica responsabilità che avverto è nei confronti dei miei fantasmi. Per questo motivo, tornando ancora a Sartre, posso permettermi il lusso di essere, se non veritiero, perlomeno verosimile.
Pim, 18 gennaio 2022
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