(Pubblicato su Kataweb Forum Cinema nel marzo 2003)
<< Mi chiamo Lester Burnham. […] Ho 42 anni. Fra meno di un anno sarò morto. Naturalmente non lo so ancora. E comunque, per certi versi, sono già morto >>.
In un sobborgo di belle villette ordinate, giardini curati, tranquillo benessere middle-class, vive un uomo di mezza età che, giorno dopo giorno, si rende conto del proprio fallimento. Sta perdendo il lavoro, un buon lavoro, ben retribuito, la moglie carrierista lo trascura, la figlia adolescente gli interpone un muro di silenzio. Sta diventando un essere superfluo, un corpo sempre più estraneo in una comunità in cui vige la legge spietata del successo. È un uomo che vede declinare pericolosamente la propria parabola esistenzale, ma fatica a opporsi a una forza oscura che lo trascina verso il fondo. Non riesce a far altro che rinchiudersi in una silenziosa, nevrotica disperazione: fa i pesi, fuma marijuana, si masturba furiosamente, si lascia agguantare dalla sensualità vanesia di una ragazzina che allucina immersa in una vasca di petali di rosa.
<< Stavo aspettando che tu mi lavassi. Sono molto, molto sporca >>.
L’animo delle persone che gli vivono accanto è piagato da altrettante afflizioni e contraddizioni. La figlia, a tutta prima timida e incerta, ha una vita sessuale sfacciata, mentre l’acida e frigida moglie si è fatta l’amante. Il ragazzo della porta accanto, il quale filma ogni cosa in cerca della verità, è uno spacciatore senza scrupoli. Il padre, di cui è succube, un collezionista d’armi e cimeli nazisti che, dietro l’omofobia, nasconde un segreto inconfessabile. L'adolescente di cui Lester s’infatua appare sessualmente disinibita, ma è in realtà vergine e insicura.
Il lungo flashback dal punto di vista del defunto (a richiamare esplicitamente Viale del tramonto) rappresenta l’epitaffio di ciò che resta oggi dell’American Dream. Nulla è come sembra in questa società allo sbando, senza punti di riferimento, che converte le proprie angosce nell’aggressività incontrollata. Per questo motivo è, a mio avviso, uno dei film più belli e lucidi di questi ultimi anni (in mezzo a tante fesserie, qualche volta gli americani ci azzeccano). Senza la pretesa di essere un trattato di sociologia, anzi inframmezzato da momenti di puro lirismo, lascia nello spettatore un segno di dolorosa inquietudine. È quasi impossibile non identificarsi in qualche modo con il protagonista: con la sua facies quasi amimica, Kevin Spacey dà vita a un personaggio che turba e fa riflettere sul nostro vagolare quotidiano in cerca di qualche fragile appiglio.
Lester riesce tuttavia a prendere coscienza delle proprie incapacità e a riscoprire progressivamente se stesso, arrivando a confrontarsi con emozioni per lungo tempo represse. Neppure un ultimo, imprevisto, evento può fermare il percorso che porta alla pacificazione. Il suo commiato ci suggerisce che nell’istante della morte, come in un’estrema agnizione, giungeremo a cogliere il vero significato della nostra esistenza. Che sia questa l'attesa redenzione?
<< Adesso non posso provare che gratitudine verso ogni istante di questa mia piccola, stupida vita… Non capite di cosa parlo, lo so. Ma non preoccupatevi, un giorno lo saprete >>.
American Beauty, di Sam Mendes, con Kevin Spacey, Annette Bening, Thora Birch, Mena Suvari (Usa, 2002, 121’). Venerdì 17 dicembre, Rete4, ore 23,30.
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