La sua vita è stata breve, altrettanto la carriera sportiva: dieci anni appena, trascorsi tra picchi assoluti e baratri profondi, trionfi epici e rovesci della sorte.
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Maradona ha vissuto molte vite: è nato e morto più volte, tracciando una parabola esistenziale che ha incarnato le contraddizioni in cui si dibatte la natura umana, portandole alle estreme conseguenze. Questa non è stata che l'ultima metamorfosi. Come spetta a ogni eroe tragico Maradona ha finalmente raggiunto l'immortalità, perché continuerà a vivere nella memoria collettiva.
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Sentii parlare per la prima volta di Diego Armando Maradona nel 1979. Ai tempi le immagini televisive non erano così diffuse come oggi, di lui arrivava soltanto qualche frammento sgranato accompagnato da commenti entusiasti. Ricordo di averlo visto giocare in occasione di una partita amichevole tra Italia e Argentina nel maggio di quell'anno, terminata 2 a 2. Dal vivo assistetti a un Juventus - Napoli 2 a 0 del dicembre 1984 in cui Favero (uno scarpone) non gli fece toccare palla. Conservo ancora da qualche parte il biglietto di quell'incontro, disputatosi al vecchio Comunale.
Non posso dire nulla di rilevante né di originale su Maradona, non sono Gianni Minà al quale concesse interviste irripetibili. Nell'apprendere con tristezza della sua morte, mi viene semplicemente da paragonarlo a Caravaggio: la stessa spropositata esuberanza vitale, lo stesso talento creativo.
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Se è vero, come è vero, che il calcio è lo specchio di un Paese, il ritorno in campo è da considerarsi un evento significativamente positivo. Dopo tre mesi veramente difficili, di confinamento e di lutti, la vita in Italia si riapre alla speranza. Gli spalti sono ancora vuoti ma si ricomincia. Ci apprestiamo a riconquistare, metro per metro, passo per passo, una normalità che ci somigli maggiormente.
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Niki avrebbe potuto morire quel primo agosto 1976 tra le fiamme, lungo il tortuoso tracciato del Nürburgring. Arturo Merzario lo estrasse dalla sua Ferrari numero 1 che era ridotto a un tizzone umano. Venni a conoscenza dell’evento solo il giorno successivo, mi trovavo in vacanza a Gressoney e non guardavo la televisione. Una signora amica di mia madre teneva in mano La Stampa, buttai l’occhio e scorsi il titolo: Niki Lauda in fin di vita. Sconvolto, smisi di prestarle ascolto. Seguivo la Formula 1 solo da un paio d’anni, allora ne avevo appena undici, tifavo naturalmente Ferrari e Niki era il mio idolo. Mi piaceva perché “freddo e calcolatore”, “razionale e determinato”, come recitavano i notiziari dell’epoca. Io ero un bambino quieto, riflessivo, diversamente dai coetanei più scalmanati avevo bisogno di sicurezze. Non a caso l’altro mio campione sportivo di riferimento era Ingemar Stenmark, un ragazzo svedese tanto vincente quanto introverso.
I media diedero subito Niki per spacciato: ricoverato nell’ospedale di Mannheim con gravi ustioni su tutto il corpo, gli venne somministrata l’estrema unzione. La fine sembrava imminente, i fumi tossici inalati gli stavano avvelenando polmoni e sangue, ma dopo pochi giorni Niki riuscì miracolosamente a riprendersi. E, cosa ancor più sorprendente, si parlò presto di un possibile ritorno alle corse. Non erano trascorsi che quaranta giorni dall’incidente e, sul circuito di Monza, tra lo stupore e lo scetticismo degli addetti ai lavori Niki entrava nell’abitacolo della sua Ferrari. Rivederlo mi fece impressione: il suo volto sembrava un ceppo bruciacchiato, un cappellino con la visiera gli nascondeva le estese cicatrici. Si seppe in seguito che il fuoco gli aveva procurato temporaneamente danni anche alla vista. Nonostante le precarie condizioni fisiche, Niki ottenne un quarto posto insperato alla vigilia e mantenne la leadership del Mondiale di Formula 1. Alla fine della stagione, però, fu il rivale James Hunt a vincere il titolo, per un solo, misero, punticino conseguito in Giappone sotto una pioggia torrenziale. In quell’occasione Niki si ritirò dopo appena pochi giri: per un guasto elettrico, si affrettò a comunicare l’ingegner Forghieri, ma in realtà il freddo e calcolatore Niki non se l’era sentita di mettere nuovamente a repentaglio la vita.
Si rifece comunque l’anno successivo, bissando il titolo ottenuto nel 1975, e al termine della stagione annunciò a sorpresa che avrebbe lasciato il Team. Al suo posto Enzo Ferrari fece debuttare un giovane pilota canadese di motoslitte del tutto sconosciuto al pubblico della Formula 1: si chiamava Gilles Villeneuve. La sorte, che con la Rossa di Maranello aveva evidentemente un conto aperto, si accanì anche contro di lui ma Gilles fu più sfortunato.
Niki continuò a correre ancora un paio d’anni senza più conseguire risultati degni di nota, poi si ritirò e fondò una compagnia aerea. Ritornò altrettanto improvvisamente nel 1981 e nel 1984 vinse su Mc Laren il terzo titolo mondiale, per mezzo punto sul compagno Alain Prost. Si vede che il destino doveva finire di regolare i conti anche con lui. Niki decise allora di appendere definitivamente il casco al chiodo, pur rimanendo nell’ambiente delle corse: collaborò con Ferrari e Jaguar, successivamente venne nominato presidente onorario della Mercedes.
Le conseguenze del Nürburgring non smisero tuttavia di tormentarlo. Tra il 1997 e il 2005 subì due trapianti renali, grazie alle donazioni del fratello e della moglie. Lo scorso anno era andato incontro a un ulteriore trapianto di polmone, per sostituire quello irrimediabilmente danneggiato dai fumi tossici sprigionatisi durante l’incidente del 1976. Da allora non si era più completamente ripreso, il sistema immunitario non appariva più in grado di difendere il suo corpo martoriato.
Niki è morto ieri, dopo aver vissuto settant’anni densi di eventi che Rush, il film di Ron Howard sulla rivalità con Hunt, è riuscito a riportare solo parzialmente sullo schermo. Una sceneggiatura per quanto romanzata non avrebbe potuto riportarne il percorso sportivo e umano irripetibile. Con lui se ne va anche un pezzo della mia infanzia di bambino quieto e riflessivo, che cercava conferme e rassicurazioni negli eroi sportivi nei quali più si riconosceva e si identificava.
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Sono sconcertato. Una crisi diplomatica tra Italia e Francia non scoppiava da almeno ottant'anni. Con la differenza che nel 1938 la Nazionale vinceva il Mondiale di calcio, mentre nel 2018 restiamo a guardare gli altri che giocano. Zero tituli - tranne quelli ingiuriosi che ci rivolgono un po' tutti ormai.
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Trovo che il gioco del calcio rappresenti un'eccellente metafora del gioco della vita. Se in una situazione decisiva metti in atto una scelta mai presa prima, significa che hai molta fiducia in te stesso oppure stai alla canna del gas.
Per fare un esempio: se alla vigilia del match per l'ammissione ai Mondiali 2018 fai esordire Jorginho a metà campo, schieri Florenzi fuori ruolo a sinistra, il redivivo Gabbiadini come punta e lasci in panca Insigne, o sei un genio del problem solving e hai pianificato ogni cosa oppure non sai più che pesci prendere e provi a cavartela sfidando l'azzardo.
Nella vita, come nel calcio, si può agire alla Guardiola o alla Ventura.
Noi italiani andiamo alla Ventura.
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Lo ricordo bene, quel pomeriggio di primavera. Sede della Juve in Galleria San Federico, sono lì ad acquistare un biglietto per non so quale partita. Probabilmente di Coppa Campioni, dunque poteva essere l’Ottantatré. Mi giro e quasi incespico sui piedi di un uomo, poco più di un ragazzo, capelli ricci, altezza media. Lo guardo in faccia e sgrano gli occhi: è Michel, Michel Platini. Sta parlando con qualcuno, ride, suppongo che nemmeno si accorga di me.
(Platini giocava la sua ultima partita il 17 maggio 1987. Aveva 32 anni)
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Quand'ero bambino, presi per alcuni anni lezione di pianoforte da un maestro austriaco di nome Hans Stricker. Fu lui a parlarmi di Matthias Sindelar detto "cartavelina", talentuoso centrattacco dell'Austria Wien e del Wunderteam negli anni '30. Fiero oppositore del Nazismo, si rifiutò di giocare nelle fila della Germania dopo l'Anschluss e per questo motivo fece una brutta fine. Herr Stricker ne era sicuro: Sindelar non morì insieme alla moglie per causa di un banale incidente domestico ma venne assassinato dalla Gestapo.
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Tag: Austria Wien, calcio, Matthias Sindelar, Wunderteam
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Difesa e contropiede, così sappiamo giocare. Dai tempi di Vittorio Pozzo, dai mondiali vinti negli anni '30; e così l'Italia di Bearzot, quella di Valcareggi prima e Lippi dopo. Perché questa è la natura del nostro popolo. È il gioco all’italiana, in altre parole la strategia dei poveri: un misto di furbizia e cinismo, di necessità e virtù. Questa è anche la strategia di Conte: ha tra le mani una delle Nazionali più scarse di talento nella storia del nostro calcio, cos'altro potrebbe escogitare? Allora palla lunga e pedalare, kick and run, come insegnavano i maestri anglosassoni. Catenaccio versione 2.0. A questa mentalità sparagnina ci aggiunge ovviamente molto di suo: la cultura del lavoro, l'applicazione feroce, la concentrazione, la determinazione, il senso del sacrificio. Conte si è preso sulle spalle questa squadra di giocatori medi (ma non mediocri), da loro spreme tutte le qualità che possiedono fino allo sfinimento. La mancanza di classe si compensa con la rabbia agonistica. L'obiettivo non è vincere una partita o un torneo ma prendere coscienza delle proprie possibilità e impegnarsi a superare i limiti personali e di squadra. Un insegnamento, un atteggiamento che ciascuno di noi dovrebbe apprendere e mettere in atto quotidianamente, in qualunque campo della vita.
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