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Un vecchio attende nella propria stanza l’arrivo del figlio che deve accompagnarlo in una casa di riposo. Ascolta Bach e dialoga con la moglie, deceduta anni prima, intessendo lunghi discorsi sull'amore che li ha uniti, sulla vecchiaia e i guasti provocati dall'età. All’arrivo del figlio, tra i due uomini nasce una schermaglia verbale intrisa di antichi rancori e piccole crudeltà, che si allenta a tratti in un affetto incapace di esprimersi appieno. Il primo tempo si conclude così, con il vecchio che lascia per sempre la stanza e il fantasma della moglie. Nel secondo tempo il protagonista si trova nella casa di riposo. Sono trascorsi alcuni anni, il racconto della vita quotidiana si mescola ai ricordi e al bilancio di una vicenda umana al termine del proprio cammino. È giunto il momento di una serena dichiarazione di resa alla morte.
Le Ultime Lune, scritto da Furio Bordon nel 1992, ha ottenuto successo e apprezzamenti da parte di pubblico e critica sia in Italia che all’estero. Si ricorda soprattutto in quanto ha costituito l’ultima prova teatrale di Marcello Mastroianni, da molti definita magistrale. Il personaggio continua oggi a calcare il palcoscenico incarnato da un altro grande interprete del teatro italiano, Gianrico Tedeschi, ottantentenne pieno di vigore e immutata intensità espressiva. Ero ancora bambino quando, negli anni ’70, lo vedevo comparire come ospite nei programmi televisivi del sabato sera – confezionati come veri e propri spettacoli teatrali. Sarà stata la giovialità che traspariva dal suo volto, la simpatia che emanava, ma di lui ho sempre conservato un piacevole ricordo. Avere avuto, ieri sera, l’opportunità di stringergli la mano ha rappresentato per me un amabile ritorno all'infanzia in biancoenero.
Lo spettacolo è incentrato sull’interpretazione di Tedeschi, che coniuga ad arte la tipica leggerezza della sua recitazione con la rabbia repressa e la malinconia dignitosa di un anziano ormai tagliato fuori dal mondo. La condizione della vecchiaia si delinea in modo disincantato, con dettagli acuti sempre in bilico tra la commozione e il sorriso. Certo, non si può dire che l’opera tocchi vertici di particolare originalità. Essa costituisce tuttavia un’occasione per assistere a del buon teatro, professionalmente solido, resistente alla patina del tempo, godendo una lezione imperdibile d’arte e di vita da parte di un eccellente attore.
Le Ultime Lune, di Furio Bordon, regia di Furio Bordon, con Gianrico Tedeschi, Marianella Laszlo, Walter Mramor. Artisti Associati / Compagnia di Prosa Gianrico Tedeschi. Teatro Politeama, Chivasso (To), 10 aprile 2003.
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Vidi Mariangela al Teatro Carignano qualcosa come venticinque anni fa, interpretava una Medea di commovente spessore. Mi piace ora ricordarla in una divertente sequenza di Mimì metallurgico girata al Valentino insieme a Giancarlo Giannini. Che il riposo le sia dolce...
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Tag: Lina Wertmüller, Mariangela Melato, Medea, Mimì metallurgico ferito nell'onore, Parco del Valentino, Teatro Carignano, Torino
Unico titolo italiano in concorso alla Berlinale, dove è stato accolto da una standing ovation del pubblico e dal plauso della critica internazionale, prodotto da Kaos Cinematografica in collaborazione con Raicinema, Cesare deve morire uscirà nelle sale il 2 marzo. Girato nell’arco di sei mesi nella sezione di Alta Sicurezza del carcere romano di Rebibbia, il film racconta la preparazione e la messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare interpretato dai detenuti. Nei ruoli dei vari personaggi del dramma figurano condannati per reati minori, alcuni carcerati beneficiati del condono, ma anche diversi “fine pena mai”, ovvero ergastolani. Cesare deve morire è stato realizzato in stretta collaborazione con Fabio Cavalli, regista di teatro che da dieci anni lavora con i detenuti di Rebibbia e che ha anche curato la trasposizione dei dialoghi shakespeariani nei vari dialetti diffusi all’interno del carcere, all’inizio adottati spontaneamente dagli attori e poi diventati una precisa scelta registica: << Ci siamo resi conto – spiegano Paolo e Vittorio Taviani – che la deformazione dialettale delle battute non immiseriva il tono alto della tragedia, anzi le regalava una verità nuova. L’attore-detenuto e il personaggio entravano in confidenza attraverso una lingua comune e più facilmente si affidavano allo svolgersi del dramma >>. Così come altrettanto calibrata sulla specificità del carcere è stata la decisione della messa in scena dell’opera shakespeariana: << Giulio Cesare ci è sembrato la scelta ideale. Vi si ritrovano i temi eterni – la lotta di potere, i tradimenti, gli assassini, la morte – e gli uomini d'onore, un elemento linguistico famigliare ai detenuti del braccio di Alta Sicurezza, che sono dentro per mafia, camorra e organizzazioni criminali varie: uomini che rispondono a un loro passato, lontano o recente, di colpe e delitti, di valori offesi, di rapporti umani spezzati e a cui bisognava contrapporre un’opera di eguale forza, ma di segno opposto. Questo nella speranza che il nostro film serva a guardare con più attenzione la situazione nelle carceri italiane, alle tragedie dei reclusi che si impiccano, alla realtà delle celle sovraffollate, e si riesca fare qualcosa per mutarne le drammatiche condizioni >>.
(Ufficio stampa Aiace Torino)
Cesare deve morire, di Paolo e Vittorio Taviani, con Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca (Italia, 2012, 76'). In programmazione al Cinema Romano di Torino.
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Tag: Cesare deve morire, Cinema Massimo, Giulia Cesare, Italia, Paolo e Vittorio Taviani, Raicinema, Rebibbia, Roma, Shakespeare, Torino
(Pubblicato sul Forum Teatro di Kataweb il 16 febbraio 2003)
Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento, diceva. Falsa modestia o schietta vanità?
Lo ricordo – mille anni fa, almeno – in un recital al Teatro Carignano di Torino. Fu un’esperienza per me straordinaria. Quasi uno shock. Ma salutare. Ero poco più che adolescente, abituato a tutt’altro genere di spettacolo. Lui sul palco stava solo – la scena buia, una luce addosso – e leggeva I Canti Orfici circondato da un silenzio spesso. La sua voce possedeva timbri e colori così intensi da spezzare l’aria intorno al pubblico. Ogni parola per un istante si materializzava e poi esplodeva, tracciando traiettorie imprevedibili. Pareva una musica.
Carmelo Bene ha costituito nella storia del teatro un caso unico e irripetibile. Una cometa anomala, che viaggiava per galassie tutte sue. S’inventava continuamente, in scena come nella vita. Prendere o lasciare. Eccessivo, ambizioso, provocatore, blasfemo. Ma creativo, coraggioso, estremo, assoluto. Inutile dire che la sua scomparsa ha lasciato un vuoto fragoroso. E una scia di polemiche: perché, come il solito, finché vivi i geni sono detestabili, ma, una volta morti, tutti si appropriano della loro memoria. Così, la nascita di una Fondazione che porta il suo nome e ha l’ambizione di accaparrarsi la sua eredità (pare non soltanto quella artistica) è fortemente avversata dalla sua ultima compagna, memore della diffidenza (se non dell’ostilità) che in vita lo circondava.
Le solite miserie della nostra società: asfittica, omologata e per giunta filistea. Gli artisti non hanno alcun peso: non si parla più né d’arte né di cultura. E gli intellettuali sono scomparsi dalla circolazione. Oppure si limitano ad apparire in televisione e a discutere di calcio.
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Tag: Carmelo Bene, I Canti Orfici, Teatro Carignano, Torino
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Tag: Giovanni Guidi Quintet feat. Gianluca Petrella, Henry Butler Trio, Italia, Perugia, Teatro del Pavone, Umbria Jazz 2011
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Tag: Il Mercante di Venezia, Psicologia, Teatro, William Shakespeare
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Tag: Romeo and Juliet, teatro, William Shakespeare
(Pubblicato da Emma su Blu Agorà Caffè il 18 ottobre 2004)
In una domenica primaverile l'ultima replica di Ta main dans la mienne. Il marciapiede, il foyer del teatro, sono colmi di persone. Senza biglietti, esauriti da settimane, mi guardo intorno, smarrita, un po' irritata. Ho accanto l'immagine severa e dimessa di Lea Massari, confabulante con quella di un uomo che le consente l'ingresso, consapevole della fondatezza del suo disappunto. D'altronde ha di fronte la moglie di Michel, in una pellicola di Claude Sautet che qualcuno, nel tragitto tra la Francia e l'Italia, dimentico di un titolo volutamente aperto, Les choses de la vie, ha ribattezzato inopinatamente L'amante. Il film si apriva con il tragico epilogo delle vicende del protagonista, uomo senza qualità - direbbe Musil -, figlio del suo tempo umorale ed incerto, che muore in un incidente stradale senza l'audacia di scelte intimamente vissute.
Ora le persone del teatro si affrettano; raggiungono gli accessi alla platea e alla galleria, mentre io, in fremente delusione, tento di scoprire se qualcuno ha avuto un impegno imprevisto; chissà, forse due prenotazioni non sono state ritirate... Invece nulla; è tutto pieno. Mi guardano, alla biglietteria, nella mia garbata insistenza e qualcosa li impietosisce. Sopraggiunge l'idea che potrei avere due posti laterali, al limite del decoro, in platea, proposti ad una cifra considerevole.
Non esito; corro in corridoio, entro a spettacolo iniziato, in un palchetto. Mi hanno già avvertita: i sovratitoli, in italiano, non saranno particolarmente visibili da quel punto. Ma lei conosce il francese, vero? Michel è in scena. Mi è familiare, come Jean Louis Trintignant; ricorda adulti conosciuti durante l'infanzia e d'improvviso il cinema si mescola alla vita reale. Poi arriva la voce; le esitazioni, la naturalezza intensa, un'invecchiata, suadente dolcezza. Très français.
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Tag: L'amante, Le choses de la vie, Lea Massari, Michel Piccoli, Ta main dans la mienne, teatro
C’era una volta la poltrona di velluto rosso, l’intimità complice di un palco, il foyer per la mondanità. C’era la compagnia stabile che non tradiva mai e allestiva sempre un buon spettacolo; oppure registi e testi impegnati, con una messa in scena un po’ provocatoria, che non coglieva il pubblico del tutto di sorpresa. C’era una volta, neppure poi tanto lontana, in cui si andava a teatro così, compresi in un impalpabile bon ton, con un abito da mezza sera, sensibili all’abbassamento di voce della prima attrice o rapiti dal guizzo istrionico del mattatore.
Naturalmente i classici e le novità continuano ad andare in scena; ma il teatro che si pone l’obiettivo di essere specchio del mondo che abitiamo e strumento per comprenderlo, oggi non può che riflettere e rappresentare la nostra realtà nel suo continuo mutamento. Un teatro che permetta una molteplicità di punti di vista, senza gerarchie. Dunque l’incrocio delle culture e la ridefinizione dei confini, la mescolanza dei generi, l’uso non convenzionale dei luoghi e degli abiti. Sono le carovane e i furgoni di saltimbanchi provenienti da dietro l’angolo oppure da posti lontanissimi, le esibizioni comiche tra giocoleria e acrobazie aeree, i cantastorie con i loro racconti d’osteria, i viaggi fisici e quelli sonori. È la passione per l'arte di strada, l'orgoglio di antichi mestieri e tradizioni, con la vita racchiusa tutta in un baule. E in un paio di pattini a rotelle.
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È il limite estremo dello spettacolo. Musicisti, cantanti, danzatori, giocolieri, saltimbanchi e funamboli, mimi, clown, illusionisti e mangiatori di fuoco. Il rischio dell’artista che si esibisce senza rete diviene metafora dell’eterno disequilibrio umano. All’inizio non c’è nulla: nessuna scenografia, nessun supporto, tranne qualche strumento essenziale. Un angolo spoglio di piazza fa da palcoscenico e il pubblico, che intanto si raduna in semicerchio, costituisce le pareti di un teatro immaginario. Un teatro vivente in continuo andirivieni, irregolare, curioso. Cosa si può esprimere, quali sono i gesti e le parole, quale musica o danza o gioco per stabilire una comunicazione con gente sempre nuova e diversa? Com’è possibile creare ogni volta, e di volta in volta, un evento in cui la schermaglia iniziale per catturare l’attenzione si trasformi in rapporto consensualmente amoroso?
Eppure accade. Ogni sera si ricreano misteriosi mondi provvisori nei quali la magia appare garbatamente tangibile, sudore e leggerezza trovano naturalmente un’armonia, come lo sgocciolio lento della pioggia, le nuvole nel cielo che si mescolano, il fluire delle correnti marine. E almeno per un istante riusciamo a scorgere nel nostro cuore qualche barlume di felicità.
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