La luce morbida del mattino strisciava sulle stecche tristemente storte degli avvolgibili in legno. Alla finestra non c’erano tende ad attenuare il chiarore diffuso sulle mie palpebre appena socchiuse. Allungai il braccio per scacciare un fastidioso formicolio dovuto alla posizione innaturale nella quale dovevo essermi addormentato. Sentivo le lenzuola fredde, l’altra metà del letto era desolatamente vuota. Non misi subito a fuoco il giorno e il luogo in cui mi trovavo. Mi stiracchiai distendendo la colonna vertebrale, senza trovare il coraggio di alzarmi. Da qualche parte dentro di me presi coscienza che dovevo sbrigarmi. Tra poche ore il treno mi avrebbe riportato a casa e, per un attimo, ritornai alle abitudini consolidate che mi attendevano: una voce familiare, rumori di cucina, profumo di caffè. Considerai, con un certo stupore, che questa quotidianità cominciava a mancarmi. Eppure, c’era stato un momento nel quale la realtà alternativa in cui mi ero ritrovato immerso negli ultimi giorni potesse prendere consistenza. E persino diventare l’unica possibile da qui in avanti. Trassi un sospiro e accesi il cellulare. Gli strilli dei bambini che entravano a scuola superavano i vetri sottili delle finestre e rompevano il silenzio che tenevo nel petto. I miei occhi adesso spalancati inquadrarono il soffitto bianco, andando a scoprire un po’ per volta le crepe sottili intorno al lampadario.
La notte precedente l’avevo vista allontanarsi in taxi, facendole un cenno di saluto con la mano. Dopo averla seguita fino al momento in cui svoltò l’angolo ero rientrato nell’appartamento deserto. Con quel fatalismo che da sempre mi accompagna avevo avvertito netta la sensazione che qualcosa si stesse chiudendo. Come un click. Forse stavo facendo una prova per capire come avrebbe potuto essere la vita senza di lei: non si trattava che di una proiezione sullo schermo bianco della mente. Ma poteva anche essere un’avvisaglia del vuoto emotivo che mi avrebbe pervaso. Nei giorni vissuti insieme avevamo sperimentato il conforto incomparabile che offre la condivisione delle opinioni e degli interessi: amavamo gli stessi scrittori, gli stessi quadri, ascoltavamo la stessa musica, avevamo visto i medesimi film. Eravamo stati risucchiati da una folie à deux senza scampo come quella dei fotoromanzi. Ora lei, con il proprio corpo e i propri pensieri, si sarebbe scissa da me per continuare ad esistere in un altrove a me precluso, in uno scenario diverso, con altri costumi e altre consuetudini. Insieme a un altro uomo che era poi il suo uomo. L’uomo dal quale sarebbe tornata, mettendo ordine ad un passato irrequieto, per inanellarsi un futuro più consono. Come stavo per fare io, a mille chilometri di distanza, insieme a un’altra donna che era poi la mia donna. Come se fosse stato semplice, certo.
Mi alzai dal letto e guardai fuori. Dalla strada occupata da automobili, bidoni della spazzatura aperti e motorini in sosta scaturiva un malinconico senso di abbandono. All’improvviso quel mondo fino a ieri sera così attraente mi apparve del tutto remoto. L’appartamento mi ricordava quello dei nonni, l’identico pavimento in graniglia e le porte a vetri verniciate di bianco. Anche l’odore di vecchio proveniente dagli armadi era lo stesso. Mi domandai allora che cosa rimanessi a fare ancora lì, quando ogni cosa sembrava invitarmi ad essere lasciata alle spalle. Mi rivestii con gesti meccanici, riposi in valigia gli ultimi effetti personali e tralasciai di fare colazione. Non restava che depositare la chiave sulla mensola, come la proprietaria dell’alloggio aveva raccomandato al mio arrivo. Avrei quindi chiuso la porta alle spalle e atteso l’ascensore al piano. Più nient’altro.
La fermata dell'autobus si trovava a poche centinaia di metri di distanza, nella piazza contornata da palazzi austeri in stile razionalista. Un gruppo di giovani universitari vociava nel giardino circolare posto al centro, attraversato da impiegati degli uffici pubblici e vecchiette con il carretto della spesa. Nel percorrere il tragitto che mi avrebbe portato a casa sua mi sentii perduto, come un’espressione senza volto, una forma senza sostanza. I miei passi non avevano più alcun peso. Vagavo ormai come un intruso, straniero alle strade, ai monumenti. Non ero più qua ma nemmeno altrove. Che ora faceva il mio orologio interno? Quale identità mi toccava assumere adesso? Aveva senso provare nostalgia per un’esistenza che avrebbe potuto essere e non sarebbe stata mai? Ero tuttavia consapevole che quel sogno così intimamente realistico mi sarebbe mancato. Mi appariva ben chiaro che il cammino dei giorni temporaneamente interrotto avrebbe ripreso il proprio percorso segnato. In fondo non è così incomprensibile: si può rinunciare senza troppi rimpianti a un futuro appena fantasticato. Il volto di lei sarebbe svanito, sostituito con infiniti altri da imprimere nella cera della memoria. Insieme ai tratti del suo volto si sarebbero dileguati i fantasmi che mi rimestavano incessantemente il cuore. L'avrei lasciata appassire come succede alle rose dimenticate in un vaso, all’inizio di un giorno concluso ancor prima di essere iniziato.
Giunto sotto casa sua cercai il nome sul citofono a muro. Non ricordavo quale fosse il piano, probabilmente non glielo avevo mai chiesto. Con l’immaginazione ero già stato lì infinite volte e la scacchiera dell’immaginazione era rimasta l’unica certezza su cui potermi muovere, come un alfiere senza più regina. Suonai il campanello e poi, arretrando di un passo o due, alzai lo sguardo. L’appartamento dava su uno stretto balcone con il parapetto in cemento e ferro battuto. Dal citofono emerse una voce graffiata ma familiare: mi comunicava che la valigetta con l’elaborato al quale avevamo lavorato si trovava nell’androne del palazzo. La serratura scattò quasi contemporaneamente. Io entrai, prelevai il tutto e uscii senza controllare il contenuto. Non cercai di capire il motivo per il quale non mi aveva invitato a salire. E neppure il senso di questa restituzione che giungeva tardivamente rispetto a quanto promesso. Le donne che recitano una parte sono indubbiamente affascinanti, soprattutto quando dimostrano un certo vigore interpretativo. La messinscena compromette tuttavia la sincerità delle relazioni e, in quei brevi giorni trascorsi insieme, aveva forse pronunciato frasi senza valore, già dimenticate. Aveva tuttavia evitato di ricorrere alla classica scena degli addii: l’ultima rappresentazione era terminata senza quei tentativi forzati di giungere a un bel finale melodrammatico. Per questa accortezza le fui intimamente grato: niente scuse, muti imbarazzi o espressioni di circostanza. Il nostro lavoro era semplicemente terminato e stava racchiuso nella valigetta che stringevo in mano. Non avrei dovuto attingere all’abilità dialettica e alle consuete risorse linguistiche. I troppi buchi nella trama avevano peraltro fiaccato i miei slanci ed avvertivo un’improvvisa fatica. L’abito di scena che indossavo mi stava ormai largo, ero spettinato e il trucco mi colava sul viso. Intuivo che non sarei tornato presto in quella città che amavo molto, ma il distacco imminente non stava procurando alcuna commozione o sconforto. Conservavo soltanto la convinzione che, tra lei e me, sarebbero rimaste molte parole non dette. Era una sensazione di incompiutezza già sperimentata la cui irrimediabilità non mi pesava: la vita si accomoda, offre altre soluzioni, il tempo è un alleato indulgente.
Viaggiavo ormai sospeso verso casa, sollevato dal vento che cominciava a soffiare.
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